Testo della prefazione pubblicata nel 2011 nell'edizione in facsimile delle sonate di G.A.Pandolfi Mealli (Edition Walhall, Magdeburg)
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Per molti anni le sonate op.III e IV di Giovanni Antonio Pandolfi Mealli hanno trovato posto sul nostro leggio, hanno abitato i nostri concerti insieme ai tanti punti interrogativi da esse sollevavati: chi era costui, e cosa lo portò dall’Italia centrale fino in Austria, poi in Sicilia, fino a sparire completamente? Finalmente, grazie al prezioso, paziente e lungo lavoro di Fabrizio Longo, la figura di questo interessantissimo virtuoso e compositore comincia a rivelarsi nei suoi contorni concreti.
Come qualsiasi violinista del XVII secolo, Pandolfi era musicista vicino ai cantori (anche suo fratello, fra l’altro, lo era), e nella sua vita professionale interagiva quotidianamente con loro e con la musica vocale, che costituiva di gran lunga la parte più cospicua del repertorio con cui uno strumentista si guadagnasse da vivere. In un tale contesto era del tutto normale che ogni significativo testo musicale dell’epoca richiedesse agli strumentisti – e in special modo ai violinisti – di ricercare la più perfetta imitazione possibile della voce umana quale cifra stilistica del ben suonare [1].
In cosa consistesse poi l’arte del ben cantare lo insegnava un testo già vetusto, ma oltremodo chiaro, come L’antica musica ridotta alla moderna prattica di Nicola Vicentino: “La esperienza dell’Oratore l’insegna, che si vede il modo che tiene nell’Oratione, che hora dice forte, & hora piano, & più tardo, & più presto, e con questo muove assai gl’oditori, & questo modo di muovere la misura, fà effetto assai nell’animo, & per tal ragione si canterà la Musica alla mente per imitar gli accenti, & effetti delle parti dell’oratione, & che effetto faria l’Oratore che recitasse una bella oratione senza l’ordine dei suoi accenti, & pronuntie, & moti veloci, & tardi, & con il dir piano & forte quello non muoveria gl’oditori. Il simile dè essere nella Musica, perché se l’oratore muove gli oditori con gl’ordini sopradetti, quanto maggiormente la Musica recitata con i medesimi ordini accompagnati dall’Armonia, ben unita, farà molto più effetto” [2]. Sarebbe impossibile non rilevare quanto la prima letteratura per violino avesse preso le mosse dalla pratica vocale, da quel cantare all’improvviso che anche secondo Giulio Caccini doveva rifarsi alle tecniche dell’oratoria e dispiegare quelli che erano definiti come i tre elementi principali che costituivano l’arte di un buon cantore: l’affetto, la varietà di affetto e la sprezzatura [3], considerando ovviamente la capacità di fare passaggi all’improvviso compresa entro le più generali capacità di esprimere affetto e di variarlo. Vincenzo Giustiniani, descrivendo lo “stile recitativo ornato di grazia et ornamenti appropriati al concetto” in contrasto con “lo stile passato, che era assai rozzo”, afferma che i “buoni musici […] porgono col loro canto artificioso e soave molto diletto a chi li sente […] applicando ad ogni sillaba una nota or piano, or forte, or adagio, or presto”. Questo nuovo stile, dice Giustiniani, venne promosso e perfezionato soprattutto da Giulio Caccini [4].
Nella musica di Pandolfi incontriamo i due elementi fondamentali della poetica “barocca”, che si intrecciano fra loro in modo complementare: poesia e danza. La poesia, intesa nel significato di senso metrico del testo, con corrispondenze architettoniche delle frasi, è presente quasi in ogni exordium di sonata, laddove è il tono declamatorio e retorico ad essere maggiormente richiesto da parte dell’esecutore, ma spesso nelle sezioni a metro ternario ben si combina con le movenze di danza, dando vita a lente sarabande oppure a sensuali gagliarde che prendono le mosse da quei bassi ostinati che costituivano in questo periodo la più creativa palestra di improvvisazione per i virtuosi musici.
Più rare sono invece le pagine di reale spessore contrappuntistico, quasi come se il violinista Pandolfi avesse bisogno di esprimere in queste opere piuttosto il proprio solismo, una volta liberato dalle quotidiane incombenze professionali di accompagnamento dovuto alle voci. E d’altra parte la sonata a violino solo, già dall’epoca di Dario Castello (il cui modello era ancora molto seguito in Austria), era votata allo stil moderno: eventuali retaggi polifonico-contrappuntistici venivano veicolati, nella musica strumentale, dalla sonata a tre.
Di conseguenza, e proprio sul cammino tracciato da Castello, sono numerose nelle sonate op.III e IV le sezioni di sapore chiaramente toccatistico che esplicitano una florida arte della diminuzione accompagnata anche da numerosi trilli e groppi.
Pur essendo il violino uno strumento perfetto per conseguire una ideale imitazione della voce umana, già dalla fine del XVI secolo la pratica diminutiva aveva raggiunto livelli di spiccata indipendenza idiomatica rispetto al canto, con impiego di figure ardite, molto veloci e impossibili da cantarsi, a causa delle assai complesse caratteristiche ritmiche mescolate con salti impervi che erano più propri degli strumenti che della voce [5]. Le diminuzioni, segno personale del suo virtuosismo, sono assai spesso notate per esteso dal nostro Pandolfi, e quindi volutamente non vengono troppo lasciate all’improvvisazione dell’eventuale interprete, così come si può analogamente riscontrare nelle coeve sonate per violino di Don Marco Uccellini [6] e Aldebrando Subissati [7].
Un altro violinista compositore dell’Italia centrale, Giovanni Antonio Leoni, nella prefazione ai lettori delle sue sonate [8], lamenta la negligenza dei copisti nel trasmettere le sue musiche, che circolavano trascritte con molti errori, ed esprime il suo risentimento nei confronti dell’eccessiva arbitrarietà con cui esse venivano manipolate da parte degli esecutori.
Sembra quindi, da un lato, che i compositori intendessero cominciare a “tutelare” le proprie opere dalle intraprendenti pratiche di colleghi violinisti senza troppi scrupoli interpretativi, e, dall’altro, che esistessero – come oggi, peraltro – interpreti pronti a modificare geneticamente un brano musicale pur di assicurarsi l’attenzione del pubblico.
Il nome del toscano Pandolfi Mealli viene qui non casualmente associato a quelli di Leoni (attivo a Roma), Uccellini (la cui famiglia era di origine toscana, e che studiò ad Assisi) e Subissati (marchigiano), in quanto tutti questi compositori testimoniano nel cuore del ‘600 la floridità dell’arte violinistica nell’Italia centrale, proseguendo così quella ricca tradizione musicale che trova documentazione nelle opere pubblicate fra la fine del ‘500 e la metà del ‘600 da Girolamo Diruta, Giovanni Luca Conforto, Giovanni Battista Bovicelli, Giulio Caccini, Agostino Agazzari, Bartolomeo Barbarino e Girolamo Fantini [9].
La sonata italiana per strumento solo con basso continuo, che in questo periodo si potrebbe forse definire una composizione in stile “rapsodico”, raccoglie gli elementi vocali cacciniani e li miscela con elementi idiomatici tipicamente strumentali, quali quelli relativi alla toccata, alla canzona, alle danze e alle variazioni su bassi ostinati. Si tratta della forma sonata a canto solo “in stil moderno” proposta da Dario Castello nel Secondo Libro delle sue Sonate Concertate pubblicato nel 1629 (queste sonate furono uno dei best sellers dell’editoria musicale europea del XVII secolo) e che, ancora dopo Pandolfi, costituiva un punto di riferimento imprescindibile in Austria ed in tutta l’Europa. Spesso negli ultimi anni si è parlato e scritto a proposito dello “stylus phantasticus” menzionato da Athanasius Kircher nella sua monumentale Musurgia Universalis e al quale gran parte delle sonate del XVII secolo si ispirano. E’ interessante la definizione di Giordano Bruno, secondo il quale lo spiritus phantasticus è “mundus quidem et sinus inexplebilis formarum et specierum”, vale a dire “un mondo o un golfo, mai saturabile, di forme e d’immagini”. In questo golfo della potenziale molteplicità troviamo un’immagine che illustra significativamente la musica di cui ci stiamo occupando.
Come in numerosi casi di composizioni musicali stampate con i caratteri mobili dell’epoca, anche in questo sicuramente la stampa non rende completamente giustizia alle intenzioni del compositore e non ci può restituire una fedele immagine della reale tecnica posseduta dai violinisti dell’epoca, sia per quanto attiene alla varietà dei colpi d’arco (le legature erano infatti molto difficoltose da notare e in special modo quelle lunghe) che per quanto riguarda l’uso delle doppie corde. Si veda ad esempio l’interessante lettera di Giulia Felice d’Este al padre, cardinale Alessandro d’Este, datata Modena, 29 maggio 1621: “…Hò sentito à sonare il Cavalcabò il quale à me pare che sona m[ol]to bene so che V[ostra] S[ignoria] Ill[ustrissi]ma la sentito p[er] quanto egli mi à detto ce posso credere che non le habbe spiaciuto, si tratene in Mod[en]a 7 o 8 giorni e in q[ue]sto mentre io vo[glio] migliorare un poco di più facendomi mostrare il stile e la maniera et hò di già il primo giorno imparato un gropo doppio sonando con due corde che è però difficiliss[i]mo à farlo…” [10]. In pratica nella lettera si parla di quello che oggi definiremmo un trillo per terze, a corde doppie, che nel 1621 era impossibile da indicare nelle edizioni a stampa con i caratteri mobili, e tale rimase per lungo tempo [11]. In Austria, una prova delle pratiche polifoniche dei violinisti italiani è fornita dalla XII sonata per violino di Ignazio Albertini, che, essendo stata incisa su lastre di rame, e quindi con la tecnica più precisa esistente all’epoca, è interamente a due voci per tutti e quattro i suoi movimenti [12].
C’è da rilevare come buona parte della musicologia abbia per lungo tempo dato per scontato che la scrittura polifonica ed accordale sul violino fosse un prodotto tipicamente nordeuropeo, solo in un secondo tempo importato in Italia: al contrario si può affermare che dall’Italia – paese che nel ‘500 aveva vissuto il fiorire della lira da braccio e da gamba e del loro suonar per accordi – musicisti come Biagio Marini e Carlo Farina avessero esportato all’estero la pratica polifonica anche per i violinisti.
Il simbolo “tr.” – spesso ricorrente nelle sonate di Pandolfi – merita un discorso approfondito. Nella stragrande maggioranza dei trattati pubblicati in Italia tra la fine del XVI e la prima metà del XVII secolo il trillo è inteso quale ripetizione della stessa nota, a volte anche con accelerazione ritmica. Fanno però eccezione due fonti (e tutte e due dell’Italia centrale) che ne forniscono una diversa interpretazione, e cioè quella della veloce alternanza fra la nota reale e la nota superiore, partendo dalla nota reale [13]. Ora, nelle sonate delle opere III e IV, Pandolfi (o forse faremmo meglio a dire il suo stampatore) indica chiaramente sempre per esteso il trillo di note ribattute insieme al simbolo “tr.” tranne in due soli casi: nelle sezioni in metro ternario delle sonate op.III n°2 “La Cesta” e n°6 “La Sabbatina” il segno compare da solo, e forse in questi due casi potrebbe venire utilizzato il trillo (o tremolo secondo la terminologia di Diruta) con la nota superiore, sebbene sia impossibile stabilire criteri rigidi in quanto in entrambi i passaggi si potrebbe applicare anche un trillo con nota ribattuta, ed inoltre si può ipotizzare che si sia stampato in questo modo a causa di problemi di notazione e di impaginazione (ad esempio per non voler aumentare di molto la lunghezza del rigo). Vi sono molti altri casi nelle due raccolte in cui si possono – e anzi, forse, si dovrebbero – aggiungere trilli di varia natura, anche se non notati.
Per quanto riguarda il trillo con la nota ribattuta, esso sembra essere di gran lunga l’ornamento dominante (anche perché l’autore indica assai spesso per esteso l’altro tipo di ornamento, quel groppo che consiste nella veloce alternanza di nota reale e nota superiore, conclusa da una risoluzione). Se consideriamo la generazione a cui l’autore appartenne e gli anni in cui avvenne la sua formazione non ci parrà strano l’utilizzo così frequente di questo tipico artificio vocale, così adattabile sia al cornetto che al violino, specie se si è muniti di un arco stilisticamente adeguato e lo si impugni nel modo storicamente corretto, cioè ponendo il pollice sotto i crini, così come facevano anche gli italiani fino alla seconda metà del seicento. Il trillo con reiterazione della stessa nota in maniera espressiva va eseguito tutto nella stessa arcata, imitando l’effetto della sua esecuzione vocale, mai quindi con veloci arcate ribattute separatamente, ma con un’unica arcata “affettuosa”.
A causa dell’ineguale qualità della stampa, trilli simili o identici fra loro vengono a volte scritti con legature e a volte senza, ma la loro sostanza rimane la stessa [14]. Da notare la varietà con cui questi trilli vengono preparati (dalla nota reale e per il tramite della nota superiore, questo più raro caso si può incontrare nella parte introduttiva della sonata “La Sabbatina”) e terminati (con la nota reale, con la nota inferiore, con la nota superiore o con la risoluzione di due note) a seconda del contesto in cui essi si inseriscono. Una utile osservazione di Ottavio Durante ci informa sull’abitudine di notare il simbolo “t.” (o “tr.) sopra al trillo scritto per esteso: “Dove sarà notata la lettera t. si deve trillar sempre con la voce, ancor che sia notata sopra il trillo, o groppetto stesso, & all’hora si deve trillar tanto più” [15].
Sarebbe erroneo ritenere che tale tipo di trillo con la nota ribattuta fosse in disuso o considerato antiquato all’epoca di Pandolfi: al contrario, rimaneva ancora il principale ornamento sia vocale che strumentale. Basti pensare che ancora nel 1684, nella quarta ristampa del celebre trattato Li Primi Albori Musicali di Lorenzo Penna, esso viene indicato come esempio di trillo per la mano sinistra dell’organo (cioè, si badi, per la tastiera) [16]. Esiste anche un certo tipo di tremolo di tutt’altro genere, non accompagnato dal simbolo “tr.”, che si può trovare in movimenti veloci come il penultimo allegro dell’op.IV n°1 “La Bernabea” o nel presto dell’op.IV n°3 “La Monella Romanesca”. Tali tremoli vanno eseguiti con arcate sciolte veloci e ricordano quelli analoghi presenti già nel “Combattimento di Tancredi e Clorinda” di Monteverdi, espressione di uno stile concitato.
In casi particolari vengono anche utilizzate combinazioni dei varii tipi di ornamenti legati fra loro secondo uno schema tradizionalmente in uso nel XVII secolo, come ad esempio la ribattuta, il groppo ed il trillo a conclusione delle sonate La Cesta (op.III) e La Stella (op.IV).
A proposito di questi ornamenti è interessante leggere alcune informazioni fornite agli esecutori da Conforto: “…dove sarà notato un t. ò di sopra, ò di sotto la riga delle note, significarà, che vi si faccia il trillo, da chi saperà adoperarlo; e dove si trovarà il groppo, notato col g. si doverà avvertir che si può tener longo al doppio, poiché non si fa se non nelle cadenze, ò nelle penultime note, quando si finisce il soggetto” [17]. Veniamo quindi informati del fatto che non tutti gli esecutori fossero in grado di eseguire correttamente un trillo, e che nelle cadenze risultava normale allargare la battuta e raddoppiare i battimenti dei groppi, che peraltro in Pandolfi non sono notati con il simbolo utilizzato da Conforto, ma scritti per esteso. Per quanto riguarda le cadenze una importante osservazione era già stata fatta da Girolamo Frescobaldi nella famosa prefazione al suo primo libro di toccate: “Nell’ultima nota così de’ trilli come di passaggi di salto, ò di grado, si dee fermare ancorché detta nota sia croma, ò biscroma ò dissimile alla seguente perché tal posamento schiverà il confonder l’un passaggio con l’altro. Le cadenze, benché sieno scritte veloci, convien sostenerle assai, e nello accostarsi il concluder de passaggi ò cadenze si anderà sostenendo il tempo più adagio” [18]. Una interessante e colorita conferma in questa direzione ci giungerà ancora più tardi da Ignazio Donati: “In questa sorta di Cantilene di Voce sola non si deve mai Batter battuta, ma solo attendere à Cantare, con misura Larghissima posatamente, con far quelli affetti esclamationi, di crescere, e mancar la Voce à tutto suo potere, con rinforzare la Voce à suo luogo è tempo; è non cantar con ansietà è Timore. Perché il Signor Organista, vede nel suo libro tutto quello, che dice il Cantante, & se anco aggiungessero altri passaggi sempre aspetterà, & darà tempo con il suo sonare, di ben fare. Però ci vole pacientia” [19].
Una particolarità senz’altro specifica e notevole che si riscontra nelle sonate di Pandolfi è quello che risulta essere il probabile primo utilizzo del punto sopra le note come indicazione di un singolare colpo d’arco espressivo: lo si incontra nella sonata op.III n°5 “La Clemente” in occasione di un cromatismo discendente (figura questa indicante languidezza, dolore, pena, affanno). Lo si vede ancora nella stessa sonata in occasione di gradi congiunti in un contesto espressivo, nella sonata seguente dell’op.III, “La Sabbatina” in passaggi analoghi, anche di note ribattute in senso espressivo (e non certo ritmico), oltre che nella sonata op.IV n°2 “La Viviana”. I passaggi contraddistinti da questi puntini posti sopra le note potrebbero forse venire eseguiti con quel colpo d’arco che Francesco Rognoni chiama “lireggiare affettuoso”, variante del comune lireggiare: “Per Lireggiare s’intende far due, trè ò più note in una sola arcata… Il lireggiare affettuoso, cioè con affetti, è il medesimo come quel di sopra, quanto all’arco, mà bisogna che il polso della mano dell’arco, quasi saltellando batti tutte le note, à una per una, e questo è difficile à farsi bene, però ci vuol gran studio, per poter portare il tempo conforme al valor delle note, guardandosi di non far più strepito con l’arco, che con il suono” [20]. La Selva de Varii Passaggi è uno dei numerosi testi in cui per gli strumentisti viene ribadita l’importanza dell’emulazione della voce: nel frontespizio della prima parte – quella dedicata ai cantanti – l’autore scrive infatti che questa sezione è “Cosa ancora utile à Suonatori per imitare la voce humana”. Da ricordare la raccomandazione, già espressa da Rognoni nella terza pagina della parte seconda, di tenere l’arco ben serrato e a stender[lo] sullo strumento, evitando di saltare sulle corde. Il “quasi saltellando” è un distinguo della massima importanza in quanto chiarisce quale debba essere il limite concreto della pronuncia d’arco [21].
Analoghi passaggi di note con i punti posti al di sopra e contemporaneamente legate, soprattutto in caso di gradi congiunti, si incontrano nella musica per violino di Giuseppe Colombi [22], Ignazio Albertini [23], Tommaso Pegolotti [24] ed Heinrich Ignaz Franz Biber, manoscritti nelle sue Sonate (o Partite) del Rosario (sonate XIII e XV) oppure incisi su lastre di rame nel caso delle sonate del II libro del 1681 (sonate I, II, VII), perciò di più chiara definizione e lettura rispetto all’arcaica edizione austriaca di Pandolfi. Purtroppo infatti i caratteri mobili musicali rendono estremamente problematica la sovrapposizione di più segni (il pentagramma, la nota ed il punto o la legatura), per cui è assai probabile che – nell’impossibilità di notare sia i punti che la lunga legatura (essa stessa già quasi impossibile di per sé) – si sia optato per i soli punti, elemento essenziale, lasciando il resto all’intuito dell’esecutore avvertito. Si deve registrare che nelle sue sonate del 1669 Pandolfi fece uso di una simile articolazione (4 ottavi o sedicesimi con punto e legatura allo stesso tempo) anche se in un contesto affatto diverso [25], ma bisogna precisare che tale opera – di tutt’altro genere rispetto alle sonate a solo del 1660 – vide la luce questa volta in Italia e per i tipi di un altro stampatore che disponeva di caratteri differenti rispetto a quelli di Wagner [26]. Il vantaggio di un’edizione in facsimile di questo tipo di musica è quindi quello di restituire all’interprete l’intera ambiguità del testo originale, poiché tutto quanto attiene alle legature ed alla loro scelta (specie quelle ravvicinate che esprimono a volte una lunga legatura, all’epoca impossibile da stampare) in un’edizione modernizzata viene per forza di cose espresso in un modo chiaro e definito, che condiziona però l’esecutore in quanto riflette la lettura dell’editore che non è sempre condivisibile e non sempre è mossa da una profonda conoscenza diretta della pratica strumentale specifica.
Fra i vari problemi del testo vi sono scambi ed irregolarità nel posizionamento dei segni [27] e molti dubbi relativi all’esatta identificazione di quegli accidenti mancanti che in numerosi passaggi dovrebbero essere aggiunti alle note: per larghi tratti il testo è alquanto vago al riguardo, e, come spesso accade con le stampe a caratteri mobili, si ricava l’impressione di un lavoro tendente piuttosto al risparmio della mano d’opera e dei segni impiegati. A tale proposito ci viene in prezioso soccorso una fonte presente nella Herzog August Bibliothek di Wolfenbüttel. Si tratta del “Partitur Buch”, un manoscritto contenente musica strumentale che è coevo (1662) all’edizione pandolfiana di Innsbruck (1660). In tale manoscritto viene riportata la sonata op.III n° 2 “La Cesta” di Pandolfi con l’erronea attribuzione ad Antonio Bertali. Questa fonte, che pure contiene alcune lacune ed inesattezze, mostra chiaramente come gli accidenti venissero aggiunti anche all’epoca di Pandolfi, anche se essi non sono tutti specificati nella fonte a stampa, segno evidente che il copista di Wolfenbüttel deve avere utilizzato una differente fonte manoscritta ora dispersa.
Nei tempi odierni vi è forse fra gli esecutori una tendenza a bearsi di quel gusto “esotico” e in un certo qual modo superficialmente “innovativo” che consiste nel suonare solo gli accidenti scritti nella stampa originale, pensando, così facendo, di restituire il testo nella sua verità, con un sapore meno tonale, più aspro ed originale. Alla luce del manoscritto di Wolfenbüttel si dimostra questa una povertà, come altrettanto povera sembra la marcata tendenza interpretativa attuale a leggere spesso queste sonate con uno stile che si potrebbe scherzosamente definire “barocco tropicale”, inserendovi a volte delle invenzioni bizzarre, stravaganti e personali che rendono tutto più esotico, primitivo, selvaggio ed estremo, ma che non si armonizzano col suo contesto originario. Non bisognerebbe dimenticare che questa musica venne dedicata da Pandolfi Mealli agli Arciduchi d’Austria e che veniva eseguita certamente in un contesto colto, nobile e solenne, in chiesa o camera che fosse, necessitando quindi di un tono declamatorio di alto livello.
Per quello che attiene alla scelta dello strumentario per il basso continuo, si è portati a ritenere più probabile l’esecuzione all’organo, soprattutto a causa della insistita presenza di lunghi pedali: ricordiamo che in questa epoca la sonata per violino e basso continuo veniva accompagnata di regola dalla sola tastiera, e che solamente molto più tardi il raddoppio di un basso d’arco diventerà d’uso comune. L’impiego dell’organo (normalmente presente sia in chiesa che in camera e a teatro) è suggerito altresì dalla scelta delle tonalità, che per la più parte consentono un normale utilizzo del tempermento mesotonico 1/4 di comma, con cui questa musica senz’altro andrebbe eseguita. Sono sporadici i casi in cui re# o la# vengono impiegati, ma nella maggioranza dei casi è possibile non toccare queste note al continuo, lasciando libertà d’intonazione pura al solista: Giovanni D’Avella in un trattato pubblicato a Roma nel 1657 afferma che in tali situazioni alcuni musicisti «non toccano» le note problematiche [28]. Fanno eccezione la sonata n°5 dell’op.III “La Clemente” e la sonata n°1 dell’op.IV “La Bernabea”, nelle quali il re# è insistentemente presente al continuo. Ciò si può spiegare in diverse maniere: evidentemente, o si utilizzava uno strumento con tasti spezzati o si accordava con re# al posto del mib. In effetti l’uso dei diesis sembra preponderante rispetto a quello dei bemolli. Il mib viene richiesto solo nella “Monella Romanesca” (op.IV n°3) e – limitatamente – anche nella sonata seguente, “La Biancuccia”, nella quale peraltro compare anche un accordo di si maggiore. Pure nell’ultima sonata dell’op.IV, “La Vinciolina”, viene utilizzato un paio di volte il re# al continuo. Nei casi in cui re# o la# siano presenti al basso, si può anche prendere in considerazione quanto affermato da Girolamo Diruta nel citato Transilvano, e cioè che quando un bemolle deve essere usato come diesis (e viceversa) «basta accennarlo, e chi volesse tenerlo una Breve, over Semibreve daria troppo fastidio all’udito, e far sentire quelle voci scarse e superflue con destrezza, fa conoscere il valor dell’Organista» [29].
Bisogna inoltre ricordare che – diversamente da quella che è comunemente la pratica odierna – all’epoca di Pandolfi era abbastanza generalizzato l’uso di strumenti a tastiera con i tasti spezzati che permettevano la doppia esecuzione di diesis e bemolli. Purtroppo queste particolari tastiere, che arrivavano ad avere diciannove tasti per ottava, furono successivamente in massima parte sostituite, ma è forse qui interessante ricordare che Giovanni Valentini, maestro di cappella presso la corte austriaca fino al 1649, anno della sua morte, possedeva un cembalo con tasti spezzati che permetteva l’esecuzione di musica enarmonica. L’Imperatore Ferdinando III, suo allievo, che regnò fino al 1657, compose un madrigale con passi enarmonici, e con ogni probabilità fu proprio per essere suonata insieme a quello stesso tipo di clavicembalo che fu composta nel 1677 la sonata per violino e basso continuo di Georg Muffat. Questa celebre sonata contiene una eccezionale sezione centrale in cui viene messa alla prova la perfetta intonazione del solista con intervalli enarmonici fra mi# e fa, la# e sib, si# e do, intesi evidentemente come note differenti fra loro [30]. Riguardo al diapason al quale questa musica veniva originalmente eseguita non possiamo avere certezze, vista la mancanza di precisi riscontri; va detto però che gli organi dei territori governati dagli Asburgo nel periodo anteriore al 1670 erano accordati con diapason differenti, generalmente intorno ai 460 hz., ma che contemporaneamente era in uso anche un ChorThon più basso [31].
Non è forse superfluo ricordare l’importanza che riveste, nell’esecuzione di questa musica, l’impiego di un arco adeguato, vale a dire non un arco tardo-barocco ma un modello più corto, a punta fine e bassa e con una maggiore distanza fra la bacchetta ed i crini.
A proposito dei materiali utilizzati per la costruzione degli archi in quell’epoca, per molto tempo si è creduto che fossero stati usati esclusivamente legni europei e non esotici, ma vari documenti hanno definitivamente chiarito che l’uso di legni provenienti dalle “Indie” – ed in particolare del legno di serpente, così adatto per la costruzione di archi barocchi – era già diffuso nella seconda metà del cinquecento. L’Accademia Filarmonica di Verona possedeva nel 1562 due archi fabbricati in “cana d’India”, mentre Pierre Trichet, nel suo Traité des instruments de musique (circa 1631) già considerava migliori quegli archi costruiti in legno proveniente dal Brasile, ebano ed altri legnami di paragonabile densità. In particolare a Venezia troviamo già il legno di serpente citato nel 1649 nel testamento del liutaio Giorgio Sellas [32], mentre nel 1683 alcuni liutai veneziani si lagnavano di non potersi approvvigionare di tale legno, come avevano fatto regolarmente in passato, dovendo dunque procurarselo ora da Parigi con un ben maggiore dispendio [33].
Va ricordato altresì che la tenuta storica dell’arco vedeva ancora il pollice destro sotto i crini: infatti l’iconografia italiana in materia è piuttosto chiara ed eloquente, e inoltre l’asserzione di Georg Muffat riguardo alla “moderna” posizione italiana con pollice sotto la bacchetta [34] è alquanto più tarda rispetto all’epoca da noi considerata (risale infatti alla fine del XVII secolo, quando era già in uso la quarta corda rivestita di metallo). Dobbiamo tenere conto del fatto che la formazione violinistica di Pandolfi avvenne negli anni ’30-’40 del seicento; se pensiamo che Giovanni Battista Lulli [35] arrivò in Francia nel 1646 e che il modo in cui impugnava l’arco era notoriamente quello con il pollice sotto i crini, possiamo essere confortati nella nostra ricostruzione.
E’ interessante notare come da questa antica posizione scaturiscano un’emissione di suono ed un’articolazione sempre ben appoggiate sulla corda (in coerenza con gli insegnamenti del già citato Rognoni), ed un uso naturale di quella “voce di polso” che nel secolo XVIII riecheggerà nelle parole di Giuseppe Tartini, istriano, ma anche lui di origine toscana, a sottolineare la grande continuità stilistica che caratterizza la cultura musicale italiana.
Enrico Gatti
[1] Si veda al riguardo l’importante studio di Luigi Rovighi, ricco di citazioni e completo di una esaustiva bibliografia: Problemi di prassi esecutiva barocca negli strumenti ad arco (Rivista Italiana di musicologia, volume VIII, pagg. 38-112, Olschki 1973).
[2] Nicola Vicentino: L’antica musica ridotta alla moderna prattica, Roma 1555.
[3] “La sprezzatura è quella leggiadria la quale si da al canto co’l trascorso di più crome, e simicrome sopra diverse corde, col quale, fatto à tempo, togliendosi al canto una certa terminata angustia, e sechezza, [lo] si rende piacevole, licenzioso, e arioso, siccome nel parlar comune la eloquenza e la fecondia rende agevoli, e dolci le cose di cui si favella. Nella quale eloquenza alle figure, e à i colori rettorici assimiglierei i passaggi, i trilli, e gli altri simili ornamenti, che sparsamente in ogni affetto si possono tal’ora introdurre”. Così Giulio Caccini nell’edizione de Le nuove musiche pubblicata a Firenze nel 1614.
[4] Vincenzo Giustiniani: Discorso sopra la musica, 1628, mss. presso la Biblioteca Apostolica Vaticana Roma, cit. in A. Solerti: Le Origini del Melodramma, Torino 1903.
[5] Si veda ad esempio la scrittura di Richardo Rogniono in Passaggi per potersi essercitare…, Venezia 1592.
[6] Don Marco Uccellini: Sonate, Correnti at Arie… op.IV, Venezia 1645; Sonate over Canzoni… op.V, Venezia 1649; Ozio Regio… op.VII, Venezia 1660.
[7] Aldebrando Subissati: Il Primo Libro delle sonate di violino, mss. ca. 1675-76, Fossombrone (Pesaro), Biblioteca Civica Benedetto Passionei. Queste sonate vennero copiate fra il 1675 ed il 1676, quando Subissati (1606-1677), era già molto avanti negli anni. La loro effettiva data di composizione si dovrebbe con ogni probabilità situare precedentemente.
[8] Giovanni Antonio Leoni, Sonate di Violino A Voce sola, Libro primo Opera terza, Roma, Appresso Vitale Mascardi 1652.
[9] Girolamo Diruta: Il Transilvano, Venezia 1593; Giovanni Luca Conforto: Breve et facile maniera d’essercitarsi a far passaggi, Roma 1593; Giovanni Battista Bovicelli: Regole, Passaggi di musica, Venezia 1594; Giulio Caccini: Le nuove musiche, Firenze 1601; Agostino Agazzari: Del sonare sopra’l basso con tutti li stromenti, Siena 1607; Bartolomeo Barbarino: Il secondo libro delli motetti, Venezia 1614-15; Girolamo Fantini: Modo per imparare a sonare di tromba, Frankfurt 1638. Anche nei casi in cui i testi vennero pubblicati al nord, tutti gli autori citati provenivano da regioni dell’Italia centrale, tranne Conforto, che però svolse la sua professione a Roma.
[10] Modena, Archivio di Stato, Cancelleria Ducale, Carteggio fra Principi Estensi, busta 205.
[11] Esiste in merito una unica eccezione: si tratta di alcuni brani delle Sonate, symphonie, canzoni… op.VIII di Biagio Marini, che videro la luce a Venezia nel 1629 per i tipi di Bartolomeo Magni. Nel suo laboratorio Magni disponeva di caratteri speciali e rari, in parte ereditati da Angelo Gardano, di cui aveva sposato la figlia. Tali caratteri consentivano la stampa a caratteri mobili di brani polifonici, ma la difficoltà, la lunghezza e soprattutto i costi esorbitanti di questo tipo di lavoro lo resero proibitivo e fecero sì che fosse subito abbandonato. Ancora ad inizio settecento Giuseppe Valentini, nel licenziare alle stampe le sue Idee per camera a violino solo e violone o cembalo (pubblicate a Roma da Giovanni Giacomo Komarek fra il 1706 ed il 1707) spiegherà nella prefazione di non essere in grado di far stampare la seconda parte del volume in quanto contenente “sonate a due e tre corde” che comporterebbero delle spese insostenibili.
[12] Ignazio Albertini: Sonatinae XII Violino solo, Vienna e Francoforte 1692. Albertini (ca.1644-1685) fu musicista di corte a Vienna e dedicò le proprie sonate a Leopoldo I. Mentre la raccolta era in corso di preparazione, egli venne pugnalato e morì senza poter vedere la propria opera terminata (lo fu solo sette anni dopo la sua morte, di cui peraltro stavolta non possiamo nulla imputare al nostro Pandolfi, che si trovava allora in Spagna).
[13] Queste due fonti sono: Alessandro Guidotti, Avvertimenti particolari per chi cantarà recitando : & per chi suonerà in: Emilio de Cavalieri, Rappresentazione di Anima et di Corpo, Roma 1600; Girolamo Diruta: Il Transilvano, Venezia 1593. Va detto però che Diruta utilizza una terminologia differente, definendo lo stesso ornamento di Guidotti-Cavalieri come “tremolo” (o “tremoletto”, nel caso di note di valore breve). Interessanti queste sue osservazioni al riguardo: “Poi li tremoli si deve avvertire di far le notte con leggiadria, & agilità, e non far come fanno molti, che fanno il contrario, perche gli accompagnano con il tasto di sotto, la dove devono esser fatti con quello di sopra, e se havete mai osservato Sonatori di viola, di violino, e di lauto, & altri istrumenti, si da corde, come anco da fiato, dovete aver veduto, che accompagnano la nota del tremolo di sopra, e non di sotto”. E più oltre: “Si deve cosi intendere, che quando si hà à fare un tremolo sopra una nota de minima, il tremolo deve durare una semiminima. E questo deve osservarsi in tutte le note, cioè il tremolo la metà del lor’valore. E per far riuscire bene i tremoli, due cose si hanno da considerare. Prima la velocità delle note, con le quali si fanno, secondariamente, il suo nome di tremolo. E quando si teneranno le dita lenti è molle, alhora si faranno bene è presto”. Da notare il riferimento di Diruta alla pratica dei Sonatori di viola, di violino, e di lauto, & altri istrumenti, si da corde, come anco da fiato.
[14] Si veda a titolo esemplificativo la parte iniziale della sonata op.III n° 2 “La Cesta”, in cui, di otto trilli dello stesso tipo, cinque appaiono legati mentre tre non lo sono. E’ qui fondamentale la collazione con la fonte manoscritta di Wolfenbüttel (pubblicata in facsimile in appendice), in cui tutti i trilli riportano la stessa lunga legatura che indica chiaramente come vada eseguito il trillo; questo tipo di legatura, con i materiali in dotazione allo stampatore Michele Wagner, era impossibile da stampare, e si è quindi risolto di suggerirla con l’accostamento di vari segni di legature brevi, gli unici che erano disponibili allo stampatore austriaco. Questo espediente era già stato utilizzato in altre edizioni del XVII secolo: si vedano ad esempio le sonate di Don Marco Uccellini.
[15] Ottavio Durante: Arie devote, Roma, Simone Verovio 1608.
[16] Lorenzo Penna: Li Primi Albori Musicali, quarta impressione, in Bologna per Giacomo Monti 1684. Ristampa anastatica Forni Editore, Bologna 1969.
[17] Giovanni Luca Conforto: Salmi passeggiati sopra tutti li toni Libro Primo, Roma, Mutii 1601, avvertimento Alli studiosi lettori.
[18] Girolamo Frescobaldi: Toccate e partite d’intavolatura di cimbalo…libro primo, Roma 1616, prefazione Al lettore.
[19] Ignazio Donati: Motetti a Voce sola. Libro II, Venezia, Alessandro Vincenti 1636, Avertimenti per potere insegnare.
[20] Francesco Rognoni Taegio: Selva de Varii Passaggi, Parte seconda, nuovamente data in luce, Milano, Filippo Lomazzo 1620, pag.4.
[21] Questo colpo d’arco veniva già descritto da Scipione Cerreto nella sua Della prattica musica vocale et strumentale (Napoli, Giacomo Carlino 1601): “con una arcata toccare due, ò tre, ò quattro minime, ò semiminime stanteno in una medesima riga, il simile si può fare con le crome & semicrome”.
[22] Giuseppe Colombi (1635-1694): Libro X, ms. Moe = Mus. F 280, Violino, pag. 20v.
[23] Ignazio Albertini (ca. 1644-1685): Sonatinae… cit., Sonata II, pag.6, b.8.
[24] Tommaso Pegolotti (1666-1749): Trattenimenti armonici da camera a violino solo e violoncello op.I, Modena 1698, Violino, pag. 16.
[25] Giovanni Antonio Pandolfi Mealli: Sonate cioè Balletti, Sarabande, Correnti, Passacagli, Capriccetti, & una Trombetta a uno e dui Violini con la terza parte della Viola a Beneplacito, Roma, Amadeo Belmonte 1669, pubblicato in facsimile dalla Società Messinese di Storia Patria, Messina 2005. Il brano in questione è La Spata Fora Trombetta, parte di Violino I, pag. 16.
[26] Per un approfondito ed esaustivo studio sui caratteri mobili, gli stampatori ed i loro problemi editoriali, nonché su tutte le pratiche esecutive del violino in Italia nel seicento si veda il formidabile volume di Constance Frei: L’arco sonoro, Articulation et ornementation: les differentes pratiques d’execution pour violon en Italie au XVIIe siècle, Lucca, LIM 2010 (in corso di stampa).
[27] Ad esempio nella sonata op.IV n° 4 “La Biancuccia” può accadere che il segno del diesis relativo all’indicazione di terza maggiore per il basso continuo venga posto alla sinistra della nota anziché sopra di essa, generando così confusione armonica.
[28] Giovanni D’Avella: Regole di musica, Roma, Moneta 1657 (citato da Patrizio Barbieri in Conflitti di intonazione tra cembalo, liuto e archi nel ‘concerto’ italiano, Firenze, Olschki 1990).
[29] Riportato da Patrizio Barbieri in Conflitti di intonazione…cit.
[30] A quanto ci consta sono conservati al giorno d’oggi in tutto il mondo meno di una ventina di clavicembali con tasti spezzati: la spezzatura avviene per la quasi totalità di essi sulle note mi bemolle / re diesis e sol diesis / la bemolle. Per quanto riguarda gli organi, invece, si ha notizia di circa ottanta strumenti che ci sono pervenuti con i tasti spezzati, mentre una grandissima parte sono stati modificati. Per quanto riguarda la spezzatura delle tastiere organistiche si registra – rispetto a quella dominante nei cembali – anche la tendenza ad avere sia il si bemolle che il la diesis; ciò potrebbe venire spiegato con il fatto che il cembalo è strumento di più facile e pronta accordatura, e quindi non richiede così tante spezzature come l’organo. Per ulteriori dettagli si veda il monumentale studio di Patrizio Barbieri: Enharmonic instruments and music, 1470-1900. Revised and translated studies. CD included. Latina, Il Levante Libreria Editrice, 2008.
[31] Bruce Haynes: A History of Performing Pitch, The Scarecrow Press, Lanham, Maryland 2002.
[32] “…Quello mi attrovo della mia povertà in casa e bottega, legname de diverse sorti, legna de violin e serpentin et altre parti per infrascritti Ducati 200 circa et la biancaria et altro...”. (Archivio di Stato di Venezia, notarile testamenti, notaio Taddeo b. 434 – 19 Settembre 1649), riportato da Stefano Pio in: Violin and Lute Makers of Venice 1640 – 1760, Venezia, Venice Research, 2004.
[33] Nel 1683 “ il Sig. Zuane Curci figlio di un altro Zuane lauter in Calle dei Stagneri al segno del Todesco in questa città et il signor Antonio Moretti q. Francesco dai remessi (impiallaciatore) in Frezzeria […] hanno affermato con loro giuramento come al presente non si ritrova legno serpentino in questa città in maniera tale che se il Sig. Liutaio da San Moisè (Zuanne Sellas) ne ha voluto è stato neccessitato farne venire da Pariggi con dispendio in tutto di Lire doi (2) la libra et che per avanti quando ve ne era in questa Città valeva et si pagava otto o dieci soldi et al più dodeci la libra et ciò dissero sapere per la piena cognizione che tengono delle cose da loro ut sopra attestate e […] Signor Moretti per aver lui segato al sud. Liutaio da San Moisè il serpentin da lui fatto venire da Pariggi come sopra si è detto…” Riportato nel già cit. Violin and Lute Makers of Venice 1640 – 1760 .
[34] Georg Muffat: Florilegium Secundum, Passau 1698, prefazione.
[35] Giovanni Battista Lulli nacque a Firenze il 28 novembre del 1632 da Lorenzo di Maldo Lulli e Caterina del Sera. Era quindi toscano come Pandolfi Mealli (che sicuramente era più anziano di lui), anche se più tardi si naturalizzò cittadino francese ed assunse il nome con cui è meglio conosciuto di Jean-Baptiste Lully.