Nel 1975, all’età di 19 anni, con grande emozione iniziai la mia prima ricerca in una biblioteca ricca di antichi manoscritti musicali: avevo trovato traccia dell’esistenza di un unicum contenente fra l’altro una raccolta di 12 sonate attribuite ad Arcangelo Corelli. Il fondo antico della biblioteca del Sacro Convento di S. Francesco, ad Assisi, si trovava a quell’epoca provvisoriamente alloggiato nei locali del comune dell’ascetica cittadina umbra. Prima d’allora non avevo mai provato quell’emozione unica che ancora adesso mi coglie, ogni volta, nel momento in cui il bibliotecario cammina verso di me per consegnarmi un volume che ha traversato i secoli con alterne fortune. Per la prima volta in vita mia tenevo fra le mani un manoscritto originale del Settecento.
L’oggetto di quei miei primi studi erano le dodici Sonate da Camera del ms.177 custodito presso il Fondo Antico della Biblioteca del Sacro Convento di San Francesco di Assisi.
Ciò che mi aveva spinto ad Assisi - a parte la vicinanza con la mia città, Perugia - era la curiosità di vedere queste sonate sconosciute ed inedite che venivano però definite “spurie” sulla base di alcuni indizi. La mia esperienza a quell’epoca era nulla ed io non ero certo in grado di contraddire l’articolo a firma di Michelangelo Abbado in cui si sosteneva la falsità dell’attribuzione a Corelli di quelle piccole sonate conservate ad Assisi. Alcuni aspetti di quel manoscritto mi rendevano perplesso: la data di redazione, avvenuta nel 1748 a Bologna, e la presenza di alcuni movimenti inusuali per il Corelli di cui avevo cognizione. Ma il contatto con quella fonte mi servì comunque per cominciare a prendere familiarità con i manoscritti antichi. Misi da parte quelle musiche, di tanto in tanto vi ritornai col pensiero, ma mai con la pratica perché, condizionato com’ero dal fatto che nessuno le volesse prendere seriamente in considerazione, finii per pensare anch’io che si trattasse di una falsa attribuzione.
Quando dei cari amici mi hanno proposto di creare un comitato - e addirittura di presiederlo - per onorare Corelli nel 300° anniversario della sua scomparsa con un convegno ed un festival di concerti da tenere nella sua città natale di Fusignano (di cui immeritatamente sono cittadino onorario) il pensiero è tornato per l’ennesima volta a quel manoscritto sfogliato tanti decenni prima. Questa volta una forza speciale ha mosso le mie mani e mi ha spinto a riprendere quelle vecchie copie, a porre la musica sul leggio e suonarla, scoprirla una, due, più volte, insieme al violoncello solo oppure con il cembalo. In tutti questi anni cosa avevo fatto? Cosa ho fatto da quel lontano 1975? Senz’altro ho suonato tutta la musica di Corelli, ma ho conosciuto, studiato e suonato anche tantissime altre pagine di musica bolognese ed emiliana, molta altra musica romana e anche appartenente a compositori, ambienti e stili fra loro diversi. E poi è arrivata quella stagione della vita in cui, se pure la schiena comincia a dare qualche problemino, in fondo ci sono anche dei risvolti positivi: l’esperienza che ho accumulato in questi anni guida il mio istinto, e cerco di tenere il mio violino sempre a metà strada fra il cuore ed il cervello.
Proprio queste due essenziali componenti ora, nel 2013, mi dicono che le 12 Sonate da camera del manoscritto 177 di Assisi possono venire considerate come lavori di un giovanissimo Arcangelo Corelli, composti probabilmente intorno al 1670 nel periodo in cui egli si trovava a Bologna, dove si era formato sotto la guida di alcuni esponenti di spicco di una scuola - quella bolognese del violino, il cui decano era Ercole Gaibara - della quale ancora oggi ignoriamo praticamente tutto, e di cui quindi facciamo estremamente fatica a parlare con cognizione di causa. Lo stile di queste brevissime sonate inedite è inequivocabilmente bolognese, ma si tratta di uno stile che non coincide con quello di Maurizio Cazzati, Giovanni Battista Vitali, Pietro Degli Antoni, Giovanni Maria Bononcini o altri: si avvicina unicamente a quello di Corelli, anche se la scrittura non vi è così rifinita e sviluppata come nelle opere a stampa che di lui conosciamo, e che sono le uniche opere che Corelli abbia chiaramente deliberato di voler lasciare alla posterità. La presenza di certi particolari movimenti di danza come il Balletto (che non si ritrova nella produzione romana di Corelli) e perfino quella del famoso Preludio in principio di sonata, che viene considerata una caratteristica precipua del tratto corelliano, si inserisce perfettamente nel contesto musicale bolognese dei primi anni ’70 del Seicento, e ciò coincide con l’assenza di elementi tipici del linguaggio musicale romano che il compositore fusignate inglobò perfettamente a partire dalla seconda metà degli anni ’70. Di fatto si rivela vero quanto già scritto da Ferrante Borsetti nella sua Historia almi Ferrariae Gymnasii (Ferrara, 1735): Alia [opera] quoque multa reliquit maximus Corelli noster, quae inedita remanserunt.
Il fatto che queste brevi opere non siano mai state seriamente prese in esame dalla critica dipende, a mio avviso, da diversi fattori concomitanti. Il primo di essi è senz’altro da considerarsi la scheda che venne redatta da Claudio Sartori, che nel 1962 catalogò il fondo antico della Biblioteca del Sacro Convento di Assisi. Sartori è stato senza dubbio un grande studioso cui tutti dobbiamo molto ma, per forza di cose, nell’immane lavoro di catalogazione da lui svolto sul nostro patrimonio musicale egli non poté avere la possibilità di approfondire la realtà di ogni singolo volume, e nel caso di questa dubbia attribuzione la prudenza gli fece naturalmente preferire di scrivere “privi di concordanze con le stampe e probabilmente falsamente attribuiti”. Da qui è partito un susseguirsi di sottovalutazioni sistematiche di queste sonate da camera, dovute principalmente al fatto che il manoscritto in questione fu copiato nel 1748 (data ben lontana oramai dall’epoca in cui Corelli si ritrovava ancora in vita), al fatto che in esso figurano dei Balletti (genere non frequentato da Corelli nelle musiche che diede alle stampe), e che nelle sue danze sono impiegati accordi a tre e quattro voci per la parte del violino. A nulla valse l’intervento di uno sfortunato musicologo italiano, Mario Fabbri, all’epoca direttore dell’Accademia Chigiana di Siena, che nel 1963 in un suo breve articolo segnalò la presenza di queste sonate e si dichiarò persuaso della loro autenticità, attribuendole al periodo giovanile di Arcangelo Corelli. Mi rincresce moltissimo di non aver mai potuto parlare con Fabbri, che insegnò nel conservatorio in cui ho studiato, il “Francesco Morlacchi” di Perugia. Purtroppo egli morì troppo presto per poter occuparsi di argomentare ulteriormente la sua tesi e pubblicare questi lavori. Tutta la critica che successivamente ha preso in esame - poco e pigramente - le composizioni di Assisi e soprattutto l’esegetica corelliana responsabile dell’edizione critica delle opere complete non ha mai compiuto una seria analisi delle dodici sonate da camera di Assisi: il punto di partenza di questa critica datata è sempre stato quello di considerare non autentiche le composizioni che non corrispondessero con le musiche a stampa di Corelli o non presentassero molteplici fonti concordanti: in pratica, su questa base, tutto ciò che non corrispondeva allo stile “romano” di Corelli non poteva venire considerato autentico.
Ora, è chiaro che la fama che arrise al compositore fusignate è un fenomeno che si sviluppò solo a partire dal suo periodo romano, ben dopo che Corelli poté svolgere approfonditamente i suoi studi di contrappunto e migliorare le sue capacità compositive: quando il giovane Corelli arrivò a Bologna, all’età di tredici anni, non poteva certo essere l’esperto musicista che ben quindici anni dopo pubblicò a Roma le sonate a tre op. I. Però, dal punto di vista esecutivo, il giovane Arcangelo del violino era senz’altro un diavoletto sul suo strumento, e fu sicuramente grazie a queste sue capacità che venne ammesso come membro dell’Accademia Filarmonica di Bologna già nel 1670, all’età di soli diciassette anni, fatto assai singolare. Il ciclo delle dodici sonate di Assisi potrebbe fornire una valida spiegazione per questa speciale ammissione: lo schema delle tonalità di questo ciclo risponde infatti ad un piano costruttivo simmetrico chiaramente speculare fra le tonalità maggiori (M) e quelle minori (m):
M M m M m M / M m M m M M
La ricerca di simmetria, che fu una caratteristica costante nell’opera di Corelli, si spinge fino alla composizione di un ugual numero di Preludi in metro binario e ternario, e questi elementi ci segnalano che, con ogni probabilità, fu prestata particolare attenzione alla disposizione del ciclo di queste sonate.
Bisogna ricordare che nel Catalogo degli aggregati [dell’Accademia Filarmonica di Bologna] con le Notizie ad essi riguardanti estratto dalla cronologia si dice di Corelli: Partito dunque da Bologna, dopo poco di essere aggregato nostro collega, come appare da riscontri veridici esistenti fra le nostre memorie in filza …
Come si sa, purtroppo le filze relative a quei primi anni dell’Accademia non sono più rintracciabili, e con esse sono forse anche sparite quelle musiche che avrebbero potuto far parte delle ammissioni. Tuttavia risulta chiaro dagli atti che il giovane Corelli fu aggregato alla Filarmonica in qualità di compositore e non in qualità di semplice esecutore violinista, come accadde ad esempio per i suoi supposti insegnanti Benvenuti e Brugnoli: il che chiarisce che nel 1670 Corelli aveva già composto musica.
Le brevissime composizioni da camera di Assisi contengono effettivamente alcuni materiali che risultano un poco estranei all’Arcangelo a noi ben noto, cioè quello maturo, ma in verità anche una grande quantità di stilemi tipici di Corelli, idee che ritroveremo sviluppate nelle opere più tardi date alle stampe, ma qui espresse con semplicità di mezzi e con un contrappunto fra le parti che a volte appare un poco impacciato. Nonostante ciò la sostanza musicale esprime concetti validi e assai personali rispetto a quella che era la produzione media dei compositori emiliani fra il 1660 ed il 1675. Le sonate sono tutte in tre soli movimenti, in quanto Corelli si serve di un Preludio come introduzione lenta a quella che era l’usuale coppia di danze tipica dell’epoca: Allemanda e Corrente, oppure Balletto e Corrente. L’idea del Preludio è tratta con ogni probabilità dalla letteratura di ascendenza francese che chitarristi come Francesco Corbetta e soprattutto Giovanni Battista Granata avevano portato, praticato e pubblicato in Bologna a partire almeno dagli anni ’50 del Seicento. Dall’analisi della musica a stampa (pubblicata per la stragrande maggioranza da Giacomo Monti) si può evincere che la forma che raccoglieva insieme un Preludio e due o tre danze di metro contrastante, ma tutte nella stessa tonalità d’impianto, era già stata codificata da Granata nella sua op. III del 1651, due anni prima della nascita di Corelli, ponendo di fatto le basi per lo sviluppo della moderna “Sonata da camera”. È da notare che Granata - che operò e pubblicò a Bologna lungo tutto il corso della sua vita - scrisse anche brani per violino, chitarra e basso continuo, che Corelli potrebbe anche aver ascoltato nell’esecuzione di qualcuno dei suoi maestri bolognesi: la tradizione tramandata da Padre Martini gli assegna come insegnanti il bolognese Giovanni Benvenuti ed il veneziano Leonardo Brugnoli, entrambi discepoli di Ercole Gaibara bolognese. Tornando alle sonate assisane, vi fanno inoltre la loro apparizione la Gavotta (introdotta in Italia solo negli anni ’60 del Seicento) e la Giga come movimenti conclusivi.
Il genere del Balletto negli anni ’60-’70 del Seicento era assai in voga a Bologna, ed un giovane musicista che volesse integrarsi nel tessuto locale non poteva certo ignorarlo. A volte esso può risultare quasi indistinguibile dall’Allemanda, che però qui tende spesso - ma non esclusivamente - ad avere movenze lente. Nel nostro manoscritto questa danza viene sempre (tranne un unico caso) riportata come Alemanda, con una sola elle, esattamente come in tutta l’opera a stampa di Granata e come in molte altre fonti seicentesche di questo periodo, contrariamente alla grafia moderna con due elle, più tipica del Settecento.
La scrittura violinistica di queste sonate giovanili è a volte esuberante e si mostra desiderosa di mettere in luce le abilità esecutive in ambito polifonico, con l’utilizzo di accordi a tre e quattro voci che risultano anche piuttosto estrosi ed inusuali se associati a quel Corelli maturo e perfettamente equilibrato cui tutti siamo abituati. Questa, nell’epoca in cui la musica fu scritta, è una caratteristica che impediva a tali passaggi di venire stampati a causa delle limitate possibilità offerte dalla tecnica dei caratteri mobili. In sostanza ciò dimostra che il ciclo delle dodici sonate non fu pensato per un’edizione a stampa (e d’altra parte un giovanissimo compositore non avrebbe ancora potuto ambire a tanto) ma venne elaborato per l’esecuzione, probabilmente per un’offerta ad un mecenate o, come si è proposto, per l’ammissione presso l’Accademia Filarmonica di Bologna. In tal caso è comprensibile che il giovane violinista-compositore volesse mettersi in mostra con degli artifici particolari, che in alcuni casi ricordano quanto mostrato da Giovanni Maria Bononcini nei suoi rari brani polifonici (la cui parte di violino in bicordi fu stampata per necessità su due pentagrammi distinti) nell’op. IV del 1671. Senza dubbio l’esperto e famoso Bononcini costituiva uno dei modelli cui guardava il giovane Corelli e, a proposito di ciò, risulta significativa l’esistenza di uno schizzo a penna presente nel retro di copertina dell’esemplare dell’op. III dello stesso Bononcini (1669) conservato presso il Museo Internazionale e Biblioteca della Musica di Bologna, in cui i due grandi musicisti sono ritratti insieme ad un tiorbista ed al cantante Pistocchi.
Asserire che le 12 brevi sonate di Assisi siano solamente delle volgari imitazioni e poterlo argomentare in modo convincente sarebbe abbastanza difficile in quanto un eventuale imitatore avrebbe preso a modello il contrappunto del Corelli maturo e largamente conosciuto a partire dagli anni ’80 del Seicento, piuttosto che scrivere - come nel caso di Assisi - alcuni passaggi in cui il violino ed il basso procedono ripetutamente con ottave parallele nascoste: questi, al contrario, appaiono come chiari peccati di gioventù che un compositore del Settecento non avrebbe certo commesso se avesse voluto assomigliare al “celebre” Corelli, il cui contrappunto era ampiamente disponibile in tutta Europa grazie alle numerose stampe, ristampe e copie manoscritte circolanti. Hans Joachim Marx, che ha curato l’edizione critica delle opere di Corelli, ha sorprendentemente affermato - e nessuno si è finora mai preso la briga di smentirlo - che, nel caso delle sonate da camera di Assisi, si tratta di un’imitazione piuttosto semplice e poco artistica dell’op. V e dunque da escludere dal novero delle composizioni probabilmente autentiche. Ora verrebbe da chiedersi se veramente Marx abbia ben analizzato nei dettagli il contenuto del manoscritto 177 e abbia mai ascoltato questa musica, poiché sia le forme che la sostanza sono difatti assai differenti da quelli dell’op. V. In Assisi sono assenti brani “da chiesa” o composizioni libere come i brani solistici isoritmici in forma di “perfidia” e trovano invece spazio Allemande definite “largo” o “largo assai”, una tipologia di danza che all’epoca della pubblicazione dell’op. V (1700) era decisamente desueta e oramai sparita dalla scena musicale. Di più, vi è presente un’Allemanda divisa in due parti: la prima “largo assai” e la seconda “presto”; questo è un particolare genere di scrittura che non risulta affatto settecentesco, ma che fa invece pensare ad analogie con le opere pubblicate da Giovanni Maria Bononcini ed altri compositori emiliani negli anni ’60-’70 del Seicento. Vi sono inoltre i Balletti tipici di Bologna, dell’Emilia Romagna e del Veneto e, insomma, i materiali di queste inedite sonate sembrano piuttosto condividere diversi motivi con le sonate a tre di Corelli (con le quali abbiamo infatti rintracciato diverse analogie e concordanze tematiche), piuttosto che con la più matura op. V.
Uno dei tratti che contraddistinguono la scrittura delle sonate di Assisi è la frequenza di certe pause comuni alle due parti: esse costituiscono un procedimento reiterato che a volte fa segnare una piccola battuta d’arresto al fluire delle frasi e che il compositore ha più tardi superato, nelle sue opere a stampa, tramite una più saggia e continuativa condotta del basso passeggiato. Un altro elemento importante da rimarcare è il sistema di notazione degli accidenti utilizzato nel ciclo di queste dodici sonate, che risulta ancora quello arcaico e del tutto coerente con la pratica degli anni ’60-’80 del Seicento.
Tutta l’atmosfera di queste brevi suites da camera si gioca sulla felice freschezza di idee semplici e genuine, appena enunciate sinteticamente e non sviluppate: in esse riconosciamo un violinista di tutto rispetto per la sua epoca, che ancora necessita però di approfondire i suoi studi di contrappunto e composizione.
Mi sembra di poter concludere dicendo che il torto che è stato fatto per tanti anni a queste umili composizioni preservate in unicum ad Assisi è quello di non aver voluto prenderle in considerazione in quanto non corrispondenti all’immagine del Corelli così come lo si è conosciuto, analizzato - e cristallizzato - alla luce di tutta la produzione a stampa che il compositore ha scelto di lasciare ufficialmente ai posteri. Non si è voluto considerare razionalmente quello che un giovane musicista di 16/17 anni avrebbe potuto essere nel contesto in cui si trovava ad operare per la committenza specifica di Bologna, sotto l’influsso dei suoi maestri locali e della musica che là si eseguiva.
OGNI MATTINO NASCE UN GIORNO
CHE NESSUNO DI NOI HA MAI VISSUTO
Sono tornato ad Assisi, dove nel frattempo il fondo antico della biblioteca è stato finalmente riportato nella sua dimora storica, ed insieme a Guido Olivieri, grazie ad una fortunata ricerca fra i documenti d’archivio, ho potuto ricostruire i tratti essenziali della vita del frate francescano Giuseppe Maria Galli, violoncellista che prestava servizio presso la basilica di S. Francesco e che nel 1748, trovandosi probabilmente in Bologna, ebbe a disposizione vari manoscritti antichi, ora non più rintracciabili, ed una stampa originale del 1700 da cui copiò le musiche del ms.177, poi rimasto proprietà del Sacro Convento alla morte del frate, avvenuta nel 1781. La copiatura di Fra’ Giuseppe Maria Galli (al secolo Camillo Antonio) avvenne con ogni probabilità nell’ambiente francescano di Bologna, vale a dire l’ambiente di Padre Giovanni Battista Martini, frate francescano nato nel 1706 che occupava la posizione di maestro di cappella presso la basilica di S. Francesco in Bologna già dal 1725, e che era solitamente piuttosto fornito di buone fonti. Immagino che il nostro fraticello Galli, in qualità di violoncellista, sia stato attratto dal titolo Sonate da Camera à Violino, e Violoncello solo. È forse utile ricordare che il termine Violoncello apparve a Bologna per la prima volta nell’edizione a stampa dell’op. IV di Giulio Cesare Arresti, nel 1665: evidentemente questo termine era già entrato nell’uso corrente bolognese. Per quanto concerne invece la locuzione Sonate da Camera essa si incontra già a partire dal 1645 nelle opere di Don Marco Uccellini, Biagio Marini, Giovanni Maria Bononcini ed altri. Si deve ricordare che tutte le altre musiche contenute nel manoscritto 177 di Assisi sono risultate correttamente attribuite: fra di esse la copiatura dell’intera op. V di Corelli, di alcuni brani di Tomaso Albinoni (arrangiamenti per violino e basso continuo da movimenti di concerti tratti dall’op. II) ed un unicum di Giuseppe Torelli; il manoscritto contiene inoltre altri brani adespoti per tromba di più tarda copiatura.
Credo che la ricerca di musicisti e musicologi abbia perduto parecchi decenni ignorando queste musiche, e ciò mi ha insegnato che ogni giorno noi potremmo aprirci a nuove possibilità inattese ed inaudite, solo che lo volessimo e che cercassimo di non chiuderci in certezze stereotipate, mantenendo la nostra mente sempre aperta all’analisi ed allo studio delle possibilità.
Vi sono anche varie altre sonate per violino e basso continuo di Arcangelo Corelli non comprese nell’ambito della famosa op. V: alcune di queste sonate - nel numero di cinque - sono state pubblicate definendole “dubbie” in una edizione critica del 1976 che però è essa stessa assai dubbia a causa della quantità di grossolani errori musicali che purtroppo contiene. Le cinque sonate (che portano il numero di catalogo “Anh.” poiché si trovano nell’appendice (“Anhang”) al volume delle opere non date alle stampe da Corelli stesso) ci sono pervenute tramite molteplici fonti, alcune anche a stampa, tutte indicanti chiaramente Corelli come l’autore. Le loro forme sono già più sviluppate rispetto allo stadio compositivo di Bologna, ed il loro stile è chiaramente informato a quello della sonata da chiesa (che a Roma era assai più in voga rispetto alla sonata da camera o a quella da ballo) e veniva spesso utilizzata anche come sinfonia di apertura per gli oratori, dunque dall’orizzonte di Corelli sembra apparire ormai lontano l’ambiente ballerino e d’intrattenimento presente invece in Emilia. Nonostante ciò l’autore ricerca sempre una commistione con i generi da camera: certi movimenti mostrano inequivocabilmente movenze di danze quali la corrente e la giga. Fra queste la sonata Anh. 33 in la maggiore fu pubblicata intorno al 1705 da Walsh & Hare a Londra, ed è documentata in tre altre fonti manoscritte (Torino, Washington e Londra). La sonata Anh. 34 in re maggiore vide la luce delle stampe nel 1697 grazie ai tipi dell’editore Estienne Roger di Amsterdam (che più tardi pubblicò i Concerti grossi op.VI di Corelli) ed è conosciuta anche tramite altre sette fonti manoscritte (Oxford, Londra, Vienna, Wolfenbüttel, Bruxelles, Washington, Parma). La sonata Anh. 35 in la minore fu altresì pubblicata in Amsterdam da Estienne Roger nel 1697 ma anche in Bologna verosimilmente intorno al 1700. È preservata anche in tre copie manoscritte (Londra [2] e Washington).
È da notare che Arcangelo Corelli, già nel 1679, in una lettera al conte faentino Laderchi (che gli aveva fatto richiesta di sonate da eseguirsi con il liuto) scriveva: Le mie Sinfonie sono fatte solamente per far campeggiare il violino e quelle d'altri Professori non mi paiono cosa a proposito. Sto adesso componendo certe Sonate che si faranno nella prima Accademia di Sua Maestà di Svezia della quale sono entrato in servizio per Musico da Camera, e finite che le avrò, ne comporrò una per Vossignoria... dove il Leuto pareggierà il Violino.
Ciò significa inequivocabilmente che Corelli aveva sicuramente composto sonate per violino già precedentemente alla pubblicazione della sua ufficiale op. I (sonate a tre da chiesa dedicate alla regina Cristina di Svezia) e questa lettera dovrebbe dissolvere il dubbio che un certo numero di composizioni oramai ben note e recanti una precisa cifra stilistica siano veramente da attribuirsi a lui. La sonata Anh. 34, con la sua scrittura prevalentemente imitativa fra la parte del violino e quella del basso, cui viene riservato un ruolo chiaramente più paritario rispetto ad altre composizioni databili in questo periodo, potrebbe forse essere additata come la possibile sonata che il nostro compositore scrisse appositamente per il conte Laderchi liutista: essa risulta infatti completamente eseguibile anche sull’arciliuto.