Testo scritto nel 2003 per il booklet della registrazione integrale delle sonate a tre op.V di Arcangelo Corelli (2 CD ARCANA A423)
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Il primo gennaio 1700, all’alba di un nuovo secolo, vedono la luce in Roma delle sonate che porranno la pietra tombale su quello stile che molto più tardi sarà definito “barocco”: Arcangelo Corelli, che già nelle sue 4 opere di sonate in trio (da chiesa e da camera) ha ricercato la fusione dei più essenziali elementi acquisiti nel corso dei suoi proficui studi a Bologna ed a Roma, riscuotendo il plauso unanime della civiltà musicale internazionale, pubblica con una splendida e curatissima incisione in rame (non più stampa in caratteri mobili) 12 sonate “a violino e violone o cimbalo” in cui la ricerca di essenzialità e senso delle proporzioni illustrano musicalmente come meglio non si potrebbe i nuovi ideali estetici legati alla nascente Accademia d’Arcadia. Rifuggendo dalle stravaganti asimmetrie, dalle bizzarrie e dai facili effetti a sorpresa che sovente si manifestavano nelle sonate a solo degli autori tanto tedeschi quanto italiani del XVII secolo, il musicista romagnolo riesce a proporre all’Europa un nuovo modello formale puro, equilibrato, ricco di distillata sostanza musicale, e nel contempo a proseguire idealmente la linea stilistica romana, facendo proprie ed incorporando nel senso stretto del termine importanti invenzioni dei suoi illustri predecessori, fra tutti Alessandro Stradella.
Già in passato i maggiori compositori d’Inghilterra e Francia si erano inchinati al perfetto stile corelliano: Henry Purcell nel 1683 così scrisse nella prefazione alle sue “Sonnata’s of III Parts” : “l’autore ha fedelmente ricercato una buona imitazione dei più famosi Maestri Italiani; principalmente per portare la serietà e la gravità di quel tipo di musica in voga fra i nostri connazionali, la cui indole dovrebbe ormai cominciare a detestare la frivolezza danzante dei nostri vicini”. Sul fatto che i “frivoli” vicini siano i francesi non c’è dubbio, mentre è bene ricordare che i vascelli inglesi avevano riportato dal continente varie raccolte di sonate a tre fresche di stampa: fra le ultime l’op. I di Arcangelo Corelli (1681) e l’op. II di Carlo Mannelli (1682). Anche François Couperin aveva concepito le sue prime sonate in trio imitando quelle di Corelli (racconterà la genesi delle proprie opere nella prefazione alle “Nations”, pubblicate a Parigi nel 1726, dichiarando fra l’altro di essere stato “affascinato dalle sonate del Signor Corelli, di cui amerò le opere fin tanto che vivrò”), ed ora questa nuova raccolta del violinista fusignate sarà destinata a costituire una pietra miliare nel campo della scrittura strumentale.
L’op. V verrà ripubblicata più di cinquanta volte nel corso del XVIII secolo: nessun’altra raccolta godrà di altrettanta popolarità nel ‘700. Sono centinaia le copie manoscritte che rimangono ancora oggi, dozzine gli arrangiamenti. Tutti i violinisti compositori che gli succederanno si ispireranno ad essa: Geminiani nell’op. I (1716) ed anche Tartini nella sua op. I (1734) partiranno dalla stessa base formale, anche se i contenuti a volte verranno aggiornati allo stile del tempo e anche se successivamente adotteranno la più moderna forma in tre movimenti; lo stesso Vivaldi nell’op. II (1709) attingerà in buona misura a materiali corelliani. Simile il discorso per le raccolte degli Accademici Filarmonici Bartolomeo Bernardi (op. III, 1706) e Lorenzo Somis Ardy (op. I, 1722). Francesco Maria Veracini scriverà delle “Parafrasi” dell’op. V e d’ora in avanti questa raccolta verrà considerata campo di prova e pietra di paragone per ogni violinista, fino ad arrivare a Francesco Galeazzi che nel suo grande trattato (“Elementi Teorico-pratici di Musica con un Saggio sopra l’arte di suonare il violino...”, Roma 1791), nel suggerire un metodo di didattica violinistica, così si esprimerà a pag. 59 : “...fargli prender un poco di maniera, e gusto di suonare, la qual maniera si dovrà perfezionare poi col porgergli la Seconda Parte dell’Opera V dell’immortale Arcangelo Corelli: Oh qui sì è necessario tutto il rigore delle regole dell’arte...” e poco oltre : “fargli così far un poco di mano per poter poi passare allo studio serio, e fondato della Prima Parte della sovralodata Opera V di Arcangelo Corelli. In questo studio si sveleranno, ed apriranno tutti gli arcani dell’arte, e si metteranno in pratica tutte le più esatte, e rigide regole di essa.”. E’ inoltre interessante ricordare che lo stesso Galeazzi pubblicò nel 1817 una seconda edizione del suo trattato, questa volta contenente anche una versione ornata dell’adagio del III movimento della sonata op. V n° 3 di Corelli. Al di fuori del mondo violinistico le sonate verranno trascritte per flauto diritto, per traverso, per viola da gamba e per clavicembalo, ma ciò che più è essenziale, il loro linguaggio – parafrasato – confluirà nella stragrande maggioranza delle raccolte di musica strumentale del secolo XVIII.
Per quanto riguarda gli elementi che intervengono nella composizione dell’op. V possiamo notare (condensando massimamente) quanto segue :
- Corelli fondamentalmente si serve di tutti i materiali già impiegati nelle quattro opere di sonate a tre precedentemente pubblicate.
- Viene praticata, al solito, una ben equilibrata commistione fra stile “osservato” da chiesa e stile più leggero e danzante da camera, commistione ricercata ancora successivamente nei concerti grossi op. VI.
- Gli adagi d’apertura delle sonate sono scritti in uno stile “magno”, implicando quindi senso dell’oratoria ed arte della diminuzione, che veniva usualmente dispiegata al massimo grado nei movimenti iniziali.
- I fugati sono basati su materiale “osservato” la cui origine si può tracciare all’indietro fino alla “canzona” (materiale cioè di matrice vocale e di tipo contrappuntistico), elaborata a Roma prima di Corelli in modo specificamente originale rispetto ai modelli storici da musicisti come Carlo Mannelli, Carlo Ambrogio Lonati e naturalmente Stradella. Qui appare in modo chiaro il legame con la tradizione contrappuntistica romana che risale prima di tutto a Palestrina, poi a Carissimi, quindi a Matteo Simonelli, maestro di Corelli. A volte questi movimenti fugati assumono (specie nei brani che concludono le sonate) delle vere e proprie movenze di danza, specialmente di corrente (corrente fugata), come è il caso della sonata n° 5 (secondo movimento) e n° 1 (ultimo movimento).
- Caratteristici sono i brani rapidi basati sulla ripetizione quasi ossessiva di una stessa formula ritmica che diventano saggio di bravura per l’interprete oltre che ottimo banco di studio (ne è testimone Tartini nella sua famosa lettera all’allieva Maddalena Lombardini); i movimenti con tali caratteristiche venivano denominati “perfidie” nel XVII secolo. Ne dà definizione Angelo Berardi nei suoi “Documenti Armonici” (1689), ma già nel 1607 Agostino Agazzari aveva affermato che “Il violino richiede bei passaggi, distinti, e lunghi, scherzi, rispostine, e fughette replicate in più luoghi...” (“Del Sonare sopra’l basso con tutti li stromenti e dell’uso loro nel Conserto”, Siena 1607). Di tale ripetizione ostinata di uno stesso modulo ritmico o fughetta replicata troviamo, fra l’altro, esempi nelle sinfonie di Carlo Mannelli (ca. 1660-70) e nelle sonate del modenese Giuseppe Colombi (morto nel 1694).
- I movimenti lenti che si trovano nella parte centrale delle prime sei sonate (quelle con connotazione più specificamente “da chiesa”) sono prevalentemente a ritmo ternario ed ispirati come nelle triosonate al mottetto vocale: Corelli aveva avuto un ottimo insegnante di contrappunto in Matteo Simonelli, chiamato a Roma “il Palestrina del ‘600”, che compose esclusivamente musica vocale.
- Nella seconda parte dell’opera trovano spazio danze vere e proprie, cioè dichiarate tali con titoli espliciti, anche se non si tratta di musica fatta per danzare. E’ forse interessante ricordare qui che Nicola Matteis in “Other Ayrs...for the Violin, The Second Part” (London, 1685), pubblicò una “corrente da orecchie” ed una “corrente da piedi”, significando chiaramente, con andamenti di tipo assai diverso, che un conto è una danza vera e propria ed un altro conto è un brano basato sulle movenze di una danza, ma che contiene un’elaborazione di interesse strumentale e che è concepito solo per il piacere dell’udito, necessitando quindi di un tempo moderato che ne consenta una puntuale esecuzione, oltre che la piena comprensione (la “corrente da piedi” è da suonarsi chiaramente più veloce).
- Le tipologie delle danze sono molteplici per ognuna di esse: nell’op. V è interessante ad esempio guardare alla diversità delle varie gavotte o delle gighe, riscontrare le differenze esistenti fra le diverse indicazioni di tempo o fra le strutture ritmiche dei brani fra loro analoghi.
- La dodicesima sonata è la “Follia” per antonomasia, servita come base per simili composizioni di Marais, Vivaldi, Reali ed altri. Era consuetudine terminare una raccolta con una serie di variazioni su di uno stesso basso (troveremo esempi posteriori anche in Vivaldi, Tessarini, Tartini...) e Corelli dispiega in effetti un’ampia gamma di idee, metri ed andamenti per illustrare al meglio l’antico e fiero tema iberico. Così ne racconta l’allievo Francesco Geminiani: “Non pretendo di esserne l’inventore: altri compositori, della più alta classe, si sono avventurati nello stesso tipo di viaggio; e nessuno con maggior successo che il celebrato Corelli, come si può vedere nella sua opera quinta, sull’Aria della Follia di Spagnia [sic]. Io ho avuto il piacere di discorrere con lui su tale soggetto, e l’ho udito riconoscere quanta soddisfazione ebbe nel comporla, ed il valore che gli attribuiva” (F. Geminiani: “A Treatise of Good Taste in the Art of Musick”, London 1749).
Intorno al 1710 venne stampata ad Amsterdam un’edizione delle sonate op. V recante delle diminuzioni (cioè degli elaborati ornamenti) che l’editore Estienne Roger attribuiva all’autore stesso. Dopo la morte di Corelli la paternità di tali versioni ornate (solo le prime 6 sonate venivano presentate con i movimenti lenti diminuiti) è stata a più riprese messa in discussione, fino ai giorni nostri; la questione è complessa e probabilmente di impossibile risoluzione, tuttavia bisogna prendere atto di almeno due dati oggettivi : 1- lo stile ornamentale è contemporaneo alle opere e contiene moduli corelliani riscontrabili nella scrittura originale dell’op. V; 2- Corelli intratteneva rapporti epistolari con l’editore Estienne Roger, cui aveva intenzione di affidare la stampa della sua ultima fatica, i concerti grossi op. VI. Questa opera, da Corelli curata nei minimi dettagli fino alla fine della propria vita, fu poi puntualmente stampata l’anno dopo la scomparsa dell’autore, per i tipi dell’editore olandese. Ciò farebbe pensare che Corelli non avesse motivo alcuno di risentimento nei confronti di Roger, il quale, comunque, rispondeva ai dubbiosi affermando di possedere una lettera autografa inviatagli dal compositore assieme ai manoscritti delle diminuzioni. Le versioni ornate attribuite a Corelli sono così entrate a far parte delle esecuzioni correnti di queste sonate, anche se bisogna rammentare che molteplici altre versioni ornate vi si sono aggiunte nel corso del XVIII secolo, poiché ogni virtuoso eseguiva queste opere fondamentali con la propria interpretazione (venne documentata negli anni ’20 del ‘700 anche un’esecuzione romana del violinista Montanari – allievo dello stesso Corelli – con diminuzioni enarmoniche...).
Semplicità si potrebbe definire la parola chiave di quest’opera: la semplicità come punto d’arrivo, quindi non certo intesa nell’accezione di stile naïve; Corelli prepara e lima per anni le sue sonate, selezionando le idee musicali, i materiali, i procedimenti compositivi, sempre variati e mai ripetuti nello stesso modo, anche se spesso analoghi tra loro. Il risultato è un linguaggio universale, piano ma aristocratico, comprensibile ed immediato per tutti ma che richiede sottigliezza e grande equilibrio nell’esecuzione.
A proposito della descrizione di Corelli durante una sua esecuzione musicale (fatta da uno straniero in visita a Roma e riferitaci da Hawkins in “The general history and peculiar character of the works of Arcangelo Corelli”, “Universal magazine of knowledge and pleasure”, LX, 418, London 1777) in cui il nostro violinista è ritratto in modo spiritato, con gli occhi infuocati e le pupille roteanti, “come se fosse in agonia” ritengo che essa dovrebbe venire considerata con le dovute cautele: gli stranieri hanno da sempre amato raffigurare gli abitanti della nostra penisola con tratti marcatamente folkloristici fino a creare una sorta di irrinunciabile mito italiano: basti citare la lettera di T. Dampier a W. Windham (datata 4 aprile 1741 e trascritta in “Handel and Carey” di J.R.Clemens, “The Sackbut”, 1931) in cui si dice che P.A.Locatelli “suona con tale frenesia da avere bisogno ogni anno di almeno una dozzina di violini”. E’ interessante, per esempio, comparare le descrizioni di Corelli riferite da Händel, che con lui visse a stretto contatto per vari anni a Roma e riportate da Hawkins: da esse appare il ritratto di un uomo estremamente mite e riservato, quasi austero (Marc Pincherle, “Corelli et son temps”, Paris 1954). I tratti caratteriali che emergono da tutte le biografie corelliane sono invariabilmente ispirati ad una inalterabile dolcezza, oltre che alla famosa passione che il nostro compositore nutriva per la pittura: nella sua collezione privata trovavano posto dipinti degli amici Trevisani, Maratta e Cignani, ma anche tele di Bruegel, Sassoferrato, Poussin.
Per ciò che concerne le risorse tecniche a cui Corelli fa ricorso nell’op. V esse sono in realtà alquanto limitate: l’utilizzo dei colpi d’arco e degli smanicamenti sulla tastiera rientra assolutamente nella norma, ed anzi è inferiore per esigenze tecniche a ciò che viene richiesto in raccolte di compositori tedeschi o austriaci (Schmelzer, Biber, Walther) apparse precedentemente. Il fatto che (come si diceva sopra a proposito di Galeazzi e delle sue osservazioni) l’op. V di Corelli venisse considerata quale punto di riferimento imprescindibile per tutti i violinisti - pur in un’epoca in cui la scrittura musicale e violinistica si era evoluta verso direzioni affatto diverse - testimonia l’importanza con cui si seguitava a guardare al senso della “concinnitas”, del bello proporzionato, del buon gusto e dell’equilibrio. Come scrisse Lucien Capet (“La Technique Supérieure de l’Archet”, Paris 1916) “la bellezza non ha bisogno di noi, ma noi abbiamo bisogno della bellezza, e non bisogna mai pensare di adattare l’Arte a misura nostra ma, al contrario, andare verso di lei”. Io mi sentirei di aggiungere una piccola cosa: probabilmente suonare oggi la musica del passato ricercandone nella propria interpretazione attuale i colori originali con strumenti e criteri storici può venire considerata una cosa piuttosto inutile; ma poiché ai nostri tempi abbiamo facilmente a disposizione tutte le cose maggiormente utili per la vita pratica, ciò di cui più abbisognamo veramente per non spegnere la capacità di sognare sono proprio le cose inutili…
A riguardo della presente interpretazione
Qualche anno fa un “critico specializzato” inglese, recensendo la mia incisione integrale dell’op. III di Corelli, ebbe a trovare i tempi dei movimenti lenti “post-wagneriani”. Ebbene, quel signore troverà senz’altro qui dell’altro pane per i suoi denti. La causa di ciò non risiede tanto nei miei eventuali legami col gusto wagneriano, quanto in quelli con la cultura italiana del XVII secolo. Infatti è impensabile considerare le basi dei tempi dei movimenti lenti senza tener conto delle diminuzioni che ogni virtuoso avrebbe incorporato nella propria interpretazione. Poiché al nostro tempo si suona più spesso “come sta” (ossia senza diminuzioni) che aggiungendo diminuzioni, i tempi entrati nell’uso corrente sono notevolmente più vicini all’ “andante” che all’ “adagio” o al “largo”. Ma se qualcuno dovesse rapportarsi ai tempi “standard” delle sonate per violino solo di J. S. Bach (per esempio i movimenti lenti in stile italiano che aprono la prima e la seconda sonata, con abbondanza di diminuzioni scritte per esteso dal compositore, caso assai raro, a dire il vero, nella sua epoca), allora un tempo molto lento sembrerebbe necessario ed evidente, e nessuno si sognerebbe di bollarlo come “post-wagneriano”, anche perché è il tempo a cui oggi tutti siamo abituati ad ascoltare quei movimenti lenti bachiani. La mancanza di questo (peraltro banale) raffronto e la mancanza nell’esecuzione corrente di reali diminuzioni (non si parla qui di piccola ornamentazione spicciola) alimentano il gusto attuale per tempi “facili” (l’esecuzione ne risulta oltremodo semplificata) ma sicuramente lontani dal gusto dell’epoca. E’ mia opinione che i tempi eccessivamente veloci siano una delle caratteristiche peculiari dell’epoca che stiamo vivendo: la velocità dà l’impressione immediata ma superficiale di vivificare le cose ed è l’essenza stessa del nostro stile di vita (quanto questo possa danneggiare l’interpretazione di musica del passato e far apparire irrimediabilmente datate certe esecuzioni, lo potranno forse giudicare oggettivamente fra qualche decina di anni le generazioni a venire). E’ naturale che in un contesto in cui si vive velocemente si suoni anche velocemente: oggi nessuno ha tempo da perdere. Quindi raccomando i movimenti introduttivi delle sonate di Corelli solamente a chi abbia del tempo da perdere (Händel racconta di come ogni volta che si offrisse un passaggio in carrozza a Corelli egli lo rifiutasse, asserendo che preferiva andare a piedi, e partendo avviluppato nel suo mantello scuro).
Anche i movimenti fugati necessitano di una chiarificazione, che non si potrebbe esprimere meglio che con le seguenti parole di Jean-Marie Leclair: “Ho dimenticato di dire che io non intendo affatto, con il termine di Allegro, un movimento troppo veloce, si tratta di un movimento gaio. Coloro i quali lo eseguono troppo velocemente, soprattutto nei brani di quel carattere che si può trovare nella maggior parte delle Fughe in quattro, rendono volgare la musica, invece di conservarne la Nobiltà. Questo avviso riguarda solamente le persone che possono averne bisogno.” (Ouvertures et Sonates en trio op. XIII, Paris 1753). Quando si parla di “fughe” per violino, chiaramente si parla di sonate nello stile italiano, di cui sappiamo, da fonti coeve, essere Leclair tanto esperto quanto dello stile francese. Leclair – che aveva studiato a Torino con Giovanni Battista Somis, considerato come il migliore allievo diretto di Corelli – si erge qui a difensore del buon gusto nell’esecuzione musicale, e la sua battaglia deve essere stata piuttosto ardua, tanto che egli si vide costretto a costellare di “Avertissements” le sue pubblicazioni:“Prego i Signori Esecutori di non trovare sbagliato che io faccia loro ricordare l’Avvertimento posto al principio del mio 4° Libro di Sonate…” (op.XIII), “Va bene che si ravvivi il maggiore con il modo di eseguirlo, ma ciò si può fare senza precipitare il tempo” (Quatrième Livre de Sonates a Violon seul op. IX, Paris 1743).
Ma tornando ai movimenti lenti, non possiamo considerare priva di suggestione quella tradizione secondo la quale Corelli richiedeva a quanti desiderassero studiare con lui la “semplice” prova dell’ esecuzione di una nota lunga. Oggi, infatti, possediamo così tante testimonianze storiche riguardanti i tempi lenti e “l’arcata lunga” (che va intesa nel senso di lunga durata) degli italiani, oltre a varie decine di versioni ornate dei movimenti dell’op.V di Corelli, da poter tranquillamente affermare che a quel tempo solo un cattivo dilettante li avrebbe suonati così come stanno e non assai lentamente. Il fatto è, però, che abbiamo perduto il contatto con la cultura della diminuzione. Nella prima metà del XVII secolo in Italia hanno visto la luce circa quindici trattati dedicati a quest’arte, ed ogni musicista di professione, essendo anche edotto in contrappunto e composizione, si sentiva libero di interpretare le opere altrui mettendoci del proprio, ed anzi, ciò era auspicato, se non richiesto, costituendo l’improvvisazione parte essenziale dell’esecuzione musicale. La diminuzione, quando è di buona fattura, esalta le peculiarità insite nel brano musicale insieme alle qualità strumentali o vocali del solista, è arte della persuasione e prezioso mezzo retorico. Arte quindi da comprendere, recuperare e conservare, facendola tornare viva.
Preparando una registrazione integrale dell’op. V una scelta si imponeva, essendo talmente numerose le versioni diminuite composte su queste musiche nel corso del XVIII e perfino XIX secolo a noi pervenute, e riguardanti sia la prima che la seconda parte dell’opera . Già ad una prima lettura di questi manoscritti si ricava spesso l’impressione di un profondo scarto stilistico rispetto all’originale corelliano, infatti molte di queste versioni diminuite furono scritte ben dopo la morte di Corelli e vari decenni dopo l’apparizione dell’op. V. Per questa ragione troviamo in esse l’espressione di un gusto più tardo, come ad esempio nel virtuosismo esibizionista dello svedese J. H. Roman (aveva 6 anni quando l’op. V fu pubblicata) oppure nella raffinata elaborazione della IX sonata ad opera di Francesco Geminiani (che conosciamo grazie alla sua pubblicazione da parte di John Hawkins nel 1776), allievo di Corelli, grande rielaboratore e sensibile ai cambiamenti di un’epoca che cominciava a “sentire” in modo diverso: nella sua elegante versione è lo stile pre-classico a fare capolino.
La mia scelta è stata quella di ambientare la nostra interpretazione all’epoca in cui la musica fu scritta, all’epoca di un uomo nato nel 1653 e morto nel 1713, cercando di evitare le sovra-scritture stilisticamente differenti. Abbiamo quindi utilizzato, ove esistenti, e cioè nelle prime sei sonate, tutte le diminuzioni attribuite a Corelli, sicuramente le più antiche e più vicine allo stile del compositore; nel caso della V sonata, dove il primo movimento presenta due riprese, abbiamo inserito nei ritornelli le assai interessanti versioni di Matthew Dubourg, databili poco dopo il 1720. Per quanto attiene alla seconda parte – quella da camera – non disponendo di diminuzioni ascrivibili a Corelli, ho preferito comporre io stesso delle diminuzioni, per diverse ragioni.
In primis, non credo che la validità di un qualcosa si misuri semplicemente sulla base del suo essere antico: allora come ora esistevano buoni musicisti e musicisti mediocri, perciò è comunque sempre necessario discernere. In secondo luogo volevo evitare degli scompensi stilistici: questo mi ha portato ad escludere l’utilizzo di alcuni manoscritti anonimi, fra cui ad esempio quello di Manchester (Manchester Public Library, Ms. 130), attualmente conosciuto come “Manchester Anonymous”, ma in realtà rivelante una strettissima analogia con lo stile diminutivo proprio di Giuseppe Tartini (si vedano i manoscritti di scuola tartiniana custoditi presso la Music Library of the University of California, Berkeley, Mss. It. 899-1014: ritengo che un approfondito studio specialistico potrebbe attribuire la paternità della fonte di Manchester quanto meno ad un esponente della scuola tartiniana, se non al violinista istriano stesso). La terza ragione è la ricerca di una coerenza nello stile decorativo di tutta la serie di composizioni: come vi è coerenza nell’impianto architettonico di base nell’opera, così la si richiede – mi pare – nell’ornamentazione. Così, dopo aver studiato per lungo tempo la tradizione diminutiva italiana e analizzato dettagliatamente lo stile proprio di Corelli, dopo aver comparato con quanto fatto da Bach prima del 1720 e da virtuosi inglesi come Dubourg e Babell (in alcuni casi alquanto vicini alla tradizione corelliana), ho scritto le mie proprie interpretazioni dell’op. V, cercando di mantenermi il più vicino possibile all’estetica delle figure corelliane. Durante l’analisi di queste ultime ho potuto riscontrare quanto risulti espressivo l’armonizzarsi di tenui linee così ricurve ed irregolari inserite nel quadro di una architettura solida e simmetrica: così come straordinario il contrasto fra il tempo lento di base e la velocità delle audaci figure ornamentali.
Nel caso specifico della sarabanda della X sonata mi sono ispirato alla versione cembalistica presente nel “Walsh Anonymous” (Music Library of the University of California, Berkeley), un manoscritto rilegato insieme ad una copia a stampa dell’op.V pubblicata da Walsh nel 1711. Per il resto ho a volte tratto ispirazione dalle idee di Dubourg e Babell in quanto a mio avviso di stile più antico, nelle loro forme asimmetriche, stravaganti ed imprevedibili, rispetto alle elaborazioni di Manchester o di Geminiani, tendenti piuttosto alla precisione geometrica ed alla regolarità ritmica, indici di un gusto meno seicentesco e più moderno; ma, tranne il caso delle riprese nella V sonata, non ho mai seguito esattamente Dubourg, anche perché le sue diminuzioni sono state annotate quando egli aveva probabilmente sì e no venti anni: sicuramente non al colmo della propria maturità di artista e di comprensione dell’arte e dello stile di Corelli. C’è anche da dire che mentre per noi oggi può essere interessante ricostruire il possibile stile personale di un compositore-esecutore, all’inizio del ‘700, con ogni probabilità, gli esecutori cercavano soprattutto di imporre al pubblico la propria personalità. Ciò che appare in ogni caso chiaro dall’evidenza di documenti storici di vario tipo in nostro possesso è che l’abilità nel diminuire le sonate a solo di Corelli veniva considerata nel XVIII secolo un valido metro di giudizio dell’abilità di un violinista.
Due autori dell’inizio del XVII secolo spiegano che dare alle stampe musica non diminuita serve sia ai principianti sprovvisti di tecnica (e quindi incapaci di eseguire virtuosismi diminutivi) che ai veri artisti, poiché questi ultimi le aggiungeranno i propri ornamenti, mentre le versioni con diminuzioni già stampate sono utili a quegli interpreti dotati di buona tecnica ma con scarse cognizioni musicali. Bisogna anche considerare la sostanziale differenza esistente fra una versione manoscritta ad uso personale ed una versione stampata: in genere i manoscritti rispondevano ad esigenze precise e personali, mentre ciò che si pubblicava doveva essere concepito in modo tale da incontrare l’approvazione di un vasto pubblico, l’utilizzazione in varie sedi e circostanze assai differenti fra loro. Questo può far pensare che Corelli, inviando le sue versioni diminuite ad Amsterdam per la stampa di Roger, avesse predisposto un testo di alto valore musicale, che però non precludesse l’accesso ai buoni dilettanti del violino. E’ molto probabile quindi che lo stesso compositore, nelle sue esecuzioni personali, facesse sfoggio di un’arte diminutiva ben più florida di quanto non appaia dall’edizione olandese del 1710. Per questo motivo a volte non mi sono fatto scrupolo di riempire gli ampi spazi con copiose ridondanti figure diminutive nello stile tardo-seicentesco.
Questa registrazione non costituisce, di conseguenza, un catalogo delle differenti versioni ornate dell’op. V elaborate nel corso del XVIII secolo, ma è la mia interpretazione personale di oggi, una elaborazione artistica basata sulle conoscenze attualmente disponibili.
Per quanto concerne la realizzazione degli arpeggi nei movimenti fugati sono state utilizzate varie e differenti maniere, tutte testimoniate da Francesco Geminiani nella sua “Art of Playing on the Violin”.
L’organico da noi prescelto per la voce del basso è quello a due che affianca il violoncello al clavicembalo. È vero che in Italia è esistita – e soprattutto negli anni ’70-’90 del Seicento – una consistente tradizione dell’eseguire musica da camera impiegando o il solo violone senza cimbalo oppure la sola spinetta senza basso d’arco; ma tale tradizione riguardava soprattutto il genere delle sonate a tre da camera, sistematicamente stampate in 3 parti-libro separate, diversamente da quanto accadeva nell’ambito delle sonate a tre da chiesa, che venivano invece stampate in 4 parti-libro, presupponendo l’obbligo dello strumento basso concertante (“violone o arcileuto”). Ora, non si possono certo negare le numerose affinità stilistiche fra la scrittura delle sonate da chiesa op. I & III di Corelli e la prima parte dell’op. V, che, specialmente nei fugati, reclama la presenza di un basso d’arco in modo da poter esprimere adeguatamente il dialogo fra le varie voci. D’altra parte, se si analizza con attenzione quanto scritto dal compositore, ci si rende facilmente conto che l’utilizzo del cembalo è necessario per realizzare tutte le figure armoniche specificate e per poter seguire il senso del contrappunto. Anche nelle sonate da camera il solo violoncello non potrebbe riuscire a realizzare il basso continuo così come specificato da Corelli: anche solamente per assicurare un minimo di senso armonico l’esecutore violoncellista sarebbe costretto ad impegnarsi in una pratica sicuramente non coeva all’epoca da noi presa in considerazione, con posizioni della mano sinistra che risultano documentate solo nel XIX secolo. Abbiamo quindi optato per la soluzione che ci sembrava la più convincente musicalmente, e che rendesse maggiore giustizia a tutto l’insieme di questa musica, non sempre destinata, d’altra parte, ad un’esecuzione in spazi angusti. La prassi da noi scelta è comunque suffragata da abbondante iconografia dell’epoca in questione, dalla quale abbiamo scelto di riprodurre due esempi: un’accademia romana (con una formidabile équipe di basso continuo) e l’illustre allievo di Corelli, G.B.Somis. In quest’ultimo disegno, eseguito da un violinista-pittore, si noterà l’esattezza di ogni dettaglio, e come fosse pratica comune che i musicisti leggessero tutti da una stessa partitura.
È assodato che all’epoca della stampa dell’op. V con l’antico termine di violone si intendesse il “viulunzèl” (piccolo violone) bolognese e modenese, nato con l’introduzione delle corde basse filate in argento, e cioè il violoncello.
Enrico Gatti