Testo scritto per il booklet della registrazione delle sonate op.II di Antonio Vivaldi (CD GLOSSA GCD921202)
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– L’esilio è finito! – diceva El Conde. – Finalmente possiamo mettere in opera quel che abbiamo per tanto tempo meditato! Cosa resti a fare sugli alberi, Barone? Non c’è più motivo!
Cosimo allargò le braccia. – Io sono salito quassù prima di voi, signori, e ci resterò anche dopo!
– Vuoi ritirarti! – gridò El Conde.
– No: resistere – rispose il Barone.
[Italo Calvino, “Il barone rampante”]
I : RICORDI…
Io non ero ancora stato immaginato quando partì la riscoperta di Antonio Vivaldi, fra gli storici saloni dell’Accademia Chigiana di Siena ed i nobilissimi luoghi della Fondazione Cini nell’isola di San Giorgio, quando le edizioni Ricordi (nome evocativo, per un compositore che fu completamente dimenticato durante tutto il XIX secolo) iniziarono la temeraria impresa di riportare i suoni del prete rosso nel mondo. Ma, da giovane studente, sicuramente ho assistito a quel veloce processo di diffusione dell’opera vivaldiana nelle sale da concerto, nelle scuole di musica e poi, gradualmente, nelle case di tutti, per finire nei negozi, nei ristoranti, negli hotels, fino alle segreterie telefoniche.
Il mio primo insegnante suonava con “I Musici” più o meno dalla loro fondazione, e partiva regolarmente in tournée con loro per suonare Vivaldi in tutto il mondo, per registrare nuovi concerti (avevo – ed ho ancora – un enorme cofanetto di LP contenente quasi tutti i concerti di Vivaldi allora registrati) o videocassette a colori delle Quattro Stagioni per il mercato giapponese, in un’epoca nella quale in Europa non esistevano ancora i videoregistratori ed i televisori erano solo in bianco e nero. Mi piaceva moltissimo leggere i concerti di Vivaldi con i miei amici e compagni di studio, e mi sembrava che avrei potuto passare tutta la mia esistenza anche solamente a suonare questa musica che era piena di idee e di vita e che per noi esprimeva un’energia paragonabile a quella che ci sentivamo dentro.
Così ora mi sembra assai strano – alla non più tenera età di cinquanta anni – essere qui a commentare quella che è di fatto la mia prima incisione con musiche di Antonio Vivaldi. Ogni buon allievo dovrebbe essere differente dai propri insegnanti, e spero quindi che troverete in questo disco qualcosa di diverso rispetto allo stile dei “Musici”, ma anche rispetto a quello stile “vivaldiano” che è più comunemente in uso al giorno d’oggi.
II : LE SONATE OP. II
Nell’anno in cui vedevano la luce i primi “parti” vivaldiani (le sonate a tre op.I, la cui prima edizione conosciuta è datata 1705) l’editore Antonio Bortoli intraprese la propria attività in Venezia. A lui Vivaldi si rivolse per la pubblicazione della sua seconda opera, forse perché non soddisfatto dalla stampa di Giuseppe Sala (editore dell’op.I), ormai prossimo alla fine della propria carriera, mentre il giovane Bortoli appariva probabilmente in grado di dare maggiori garanzie di modernità e precisione. Su tutta l’editoria musicale italiana gravava ancora, tuttavia, il giogo della antiquata tecnica di stampa a caratteri mobili, che limitava fortemente la facilità e la velocità di lettura oltre che l’espressione precisa di articolazioni e segni dinamici. Questo spiega la “fuga” di molti compositori italiani all’estero, dove la musica poteva venire incisa su lastre di rame con estrema perizia e risultati di prim’ordine dalla mano di celebri stampatori quali Estienne Roger di Amsterdam. Così avvenne che Vivaldi fece ristampare da Roger in Olanda le sue sonate per violino op.II intorno al 1711. Ma la data di composizione di queste sonate – incerta, non esistendo alcun autografo – deve essere spostata indietro di diversi anni. Infatti, da un catalogo che l’editore Bortoli pubblicò in appendice al libretto di un’opera di Caldara (la Sofonisba, rappresentata a Venezia nel novembre del 1708) si evince che le Sonate a Violino e Violoncello del Sig. D. Antonio Vivaldi figurano nel novero delle Opere Musicali sin’ora stampate in Venezia da Antonio Bortoli. E’ però probabile che le sonate fossero ancora in corso di stampa, poiché il frontespizio che compare nella prima edizione riporta la data dell’anno 1709.
La prima edizione di Bortoli, pur non essendo per i motivi sopra detti la più soddisfacente dal punto di vista della leggibilità, in vari casi si rivela essere più esatta della nuova edizione di Roger. Uno fra i vari esempi è rappresentato dal secondo movimento della II sonata: in Roger esso porta l’indicazione “Presto” che non compare invece nella prima edizione. Ora, la breve ma elegante sostanza di questo movimento unitamente al fatto che esso preceda un allegro fanno piuttosto propendere per un tempo inferiore all’Allegro, come potrebbe essere un Andante o (meglio forse) un Vivace: il “Presto” è un’aggiunta da potersi molto probabilmente attribuire a Roger il quale era abituato a rendere complete di tutte le indicazioni possibili le sue pubblicazioni (ad esempio con l’aggiunta dei numeri relativi alla realizzazione del basso continuo, di norma omessi o scarsamente indicati nelle fonti italiane), visto che queste ultime erano più che altro rivolte ai ricchi dilettanti di musica. Se vi sono degli errori nella prima edizione, come è assolutamente normale che vi siano in una stampa a caratteri mobili, bisogna riconoscere che ve ne sono assai pochi, soprattutto se comparati con quelli comunque presenti nella successiva incisione di Roger, che dagli errori avrebbe dovuto essere emendata. Motivo per il quale nel corso della nostra lettura ed interpretazione abbiamo sempre mantenuto la prima fonte a fianco della più facilmente leggibile stampa olandese.
Nonostante molti abbiano scritto – a proposito delle opere giovanili di Vivaldi – di quanto palesemente il prete rosso mostri il suo debito nei confronti di Corelli, un serio esame delle prime raccolte op.I e II ci porta senza alcun dubbio a riconoscere la profonda originalità del violinista veneziano. L’omaggio a quella che era oramai da considerarsi la più dotta ed elegante tradizione violinistica italiana è quasi scontato: tutti i violinisti-compositori si muoveranno a partire da quelle basi, ma da subito Don Antonio [Lucio] Vivaldi mostra di avere idee proprie e di saperle presentare con convincente scienza, eleganza e virtuosismo. Di certo sono diversi i richiami ai temi corelliani, come quello già citato da Pincherle e relativo all’allemanda della IV sonata, messa in relazione con la gavotta dell’op.V n.10 di Corelli . Ma mi sembra che – molto più di questo – i seguenti casi si pongano in evidenza: nella sonata I, batt.12 della Corrente, c’è una citazione testuale esplicita tratta dalla Follia di Corelli (XIX variazione, con relativa imitazione al basso); inoltre la frase che inizia a batt. 27 nella giga della IX sonata ricorda l’analoga giga corelliana dell’op.V n° 3. Interessante è anche la relazione di scambio con Francesco Antonio Bonporti, di cui il prete rosso riporterà letteralmente diverse battute della corrente tratta dalla sonata op.VII n°9 (stampata nel 1707) nella corrente della sua sonata op.II n°4. E’ poi divertente vedere come Bonporti abbia dimostrato una corrispondente ammirazione nei confronti di Vivaldi nelle sue Invenzioni op.X (Bologna, 1712) dove molte idee si rifaranno direttamente alla seconda opera vivaldiana: si vedano ad esempio le correnti delle invenzioni IV e X in luogo di movimento finale come già fatto da Vivaldi, e con le stesse movenze della sua corrente op.II n° 7, oltre che il movimento iniziale dell’invenzione IX, ispirato al primo tempo della vivaldiana op.II n° 4 ed il Capriccio della IX invenzione, concepito sulla falsariga dell’Allemanda dell’op.II n° 4. Ma soprattutto dalle sonate del violinista veneziano Bonporti trarrà nuova linfa e stimoli per portare a maturazione il suo linguaggio tipicamente nord-italiano e quindi ricco di polifonie sciolte.
D’altra parte non mancano all’op.II movimenti e strutture di nuova concezione, spazi aperti dove poter dare libero sfogo al virtuosismo strumentale o alle idee musicali di più moderna fattura come i Capricci e la Fantasia, che rappresentano novità introdotte da Vivaldi. Sono anche da notare alcuni movimenti (soprattutto di apertura) scritti con un linguaggio imitativo un poco accademico, ma di alto spessore; nel complesso, rispetto a quella certa “severità” contrappuntistica propria di Corelli, Vivaldi si mostra più modernamente libero nella vena inventiva, che esprime in uno stile innovatore e progressista. Il linguaggio caratteristico del “giovane” Vivaldi (bisogna comunque pur considerare che l’autore aveva già trenta anni quando questa raccolta vide la luce) viene oggi generalmente preso in scarsa considerazione, in quanto lo stile che l’immaginario collettivo identifica con la musica vivaldiana è quello relativo alla tarda maturità del compositore, che è anche quello maggiormente innovatore ed appariscente. Vi è una sorta di pudore a considerare ed accettare queste sonate come opera dello stesso uomo, eppure il loro linguaggio è chiaro e trasparente, e ci parla con estrema eleganza e misura.
Bisogna riscontrare nell’op.II una interessante preponderanza delle tonalità minori (7) nei confronti di quelle maggiori (5). Questo mostra una maggiore inclinazione del prete rosso per certe tonalità nelle cui pieghe si possano cercare e trovare delle qualità sicuramente molto espressive, specialmente quelle di do minore, mi minore e si minore, e si configura forse come un ulteriore segno di modernità rispetto a Corelli.
Anni fa, in un disco dedicato a sonate vivaldiane, qualcuno citò una frase del proprio anziano e famoso maestro. Tale venerando artista affermava che aggiungere degli ornamenti ai puri adagi vivaldiani sarebbe stato come disegnare i baffi alla celebre “Gioconda”. Tenuto conto delle informazioni e delle fonti di cui oggi disponiamo io ribalterei piuttosto il discorso in questo modo: suonare alcuni di questi brani senza diminuzioni sarebbe come togliere l’enigmatico sorriso al celebre ritratto: una Gioconda seria che perderebbe il suo profondo significato. Non sarebbe troppo serio né professionale nel XXI secolo proporre certi adagi di queste sonate senza diminuzioni. Certo, il diminuire la musica di Vivaldi implica problematiche di non semplice soluzione: lo stile veneziano è differente da altri stili dei quali c’è pervenuta copiosa documentazione, come quello emiliano, romano ed inglese (Corelli e la scuola che ne discende), quello in uso in Germania (Telemann e J.S.Bach) o quello personalissimo di Giuseppe Tartini. Pur nella scarsezza dei documenti d’epoca a noi pervenuti anche lo stile ornamentale di Vivaldi mostra una profonda originalità, a giudicare da quanto emerge dall’esame di un importante manoscritto appartenuto alla celebre Anna Maria del Pio Ospedale della Pietà, figlia di coro, violinista virtuosa, allieva di Vivaldi e didatta a sua volta . Questa fonte contiene la parte solistica di diversi concerti per violino di Vivaldi che furono eseguiti da Anna Maria (alcuni furono composti appositamente per lei), e fra le cose più notevoli vi figurano un movimento lento completamente diminuito ed alcune cadenze. Le diminuzioni sono attribuibili con buona probabilità a Vivaldi stesso, e sono comunque da considerarsi almeno una valida testimonianza della sua scuola. Fra le loro principali peculiarità vi è un linguaggio chiaramente idiomatico: l’antico stile diminutivo di matrice vocale, caratterizzato per lo più da moto per gradi congiunti, è qui utilizzato con minore frequenza rispetto – ad esempio – alle diminuzioni attribuite a Corelli, ed il violinismo si esprime più decisamente anche attraverso salti e figurazioni accordali arpeggiate che hanno la funzione di conferire varietà alla linea melodica ed illustrare allo stesso tempo il percorso armonico. Ma appunto in tali figure sono contenuti elementi assai sorprendenti: vi sono infatti vari esempi di note dissonanti che anticipano il senso dell’accordo seguente, creando uno sfasamento armonico che acuisce la tensione musicale e colora vivamente il brano. Essendo questa – allo stato attuale delle conoscenze – l’unica fonte originale sullo stile diminutivo proprio di Vivaldi, non si poteva non tenerne conto, anche se va detto chiaramente che tale stile si riferisce a concerti per violino eseguiti verso la metà degli anni ’20 del ‘700, e quindi all’incirca una quindicina di anni dopo la pubblicazione dell’opera seconda. Tuttavia la luce che questa fonte getta sull’arte improvvisativa veneziana dell’inizio del XVIII secolo è chiara, autorevole ed affascinante.
Lavorando sulle sonate dell’op.II ci si trova però anche di fronte a movimenti lenti caratterizzati da una scrittura strettamente imitativa (e specie quelli introduttivi a carattere retorico come lo splendido Preludio della III sonata, dall’autore riutilizzato nel Domine Deus, Agnus Dei del celebre Gloria RV 589), ragione per la quale si è spesso preferito dare la precedenza alla trasparenza del dialogo fra le due voci piuttosto che all’ornamentazione. A proposito di questo dialogo, c’è da notare come nel già citato catalogo di Bortoli del novembre 1708 l’op.II venga presentata col titolo di Sonate a Violino e Violoncello mentre il frontespizio della stampa riporta la dicitura Sonate a Violino e Basso per il Cembalo. Sembrerebbe chiara la possibilità di intercambiabilità fra i due strumenti di continuo, oppure il loro utilizzo contemporaneo, soluzione questa che senz’altro consente la più completa realizzazione di tutte le potenzialità insite in questa musica.
III : IL GRANDE (fratello) “VIVALDO”
«Stiamo dando alla lingua la sua forma finale, quella che avrà quando sarà l’unica a essere usata. Quando avremo finito, la gente come te dovrà impararla da capo. Tu credi, immagino, che il nostro compito principale consista nell’inventare nuove parole. Neanche per idea! Noi le parole le distruggiamo, a dozzine, a centinaia. Giorno per giorno, stiamo riducendo il linguaggio all’osso»… «Non hai ancora capito che cos’è la neolingua, Winston» disse in tono quasi triste. «Anche quando ne fai uso in quello che scrivi, continui a pensare in archelingua. Ho letto qualcuno degli articoli che ogni tanto pubblichi sul “Times”. Non c’è male, ma solo traduzioni. Nel tuo cuore preferiresti ancora l’archelingua, con tutta la sua imprecisione e le sue inutili sfumature di senso. Non riesci a cogliere la bellezza insita nella distruzione delle parole. Lo sapevi che la neolingua è l’unico linguaggio al mondo il cui vocabolario si riduce giorno per giorno?»… «Non capisci che lo scopo principale a cui tende la neolingua è quello di restringere al massimo la sfera d’azione del pensiero? Alla fine renderemo lo psicoreato letteralmente impossibile, perché non ci saranno parole con cui poterlo esprimere. Ogni concetto di cui si possa aver bisogno sarà espresso da una sola parola, il cui significato sarà stato rigidamente definito, priva di tutti i suoi significati ausiliari che saranno stati cancellati e dimenticati. Nell’Undicesima Edizione saremo già abbastanza vicini al raggiungimento di questo obiettivo, ma il processo continuerà per lunghi anni, anche dopo la morte tua e mia. A ogni nuovo anno, una diminuzione nel numero delle parole e una contrazione ulteriore della coscienza»… «Per l’anno 2050, forse anche prima, ogni nozione reale dell’archelingua sarà scomparsa. Tutta la letteratura del passato sarà stata distrutta: Chauser, Shakespeare, Milton, Byron, esisteranno solo nella loro versione in neolingua, vale a dire non semplicemente mutati in qualcosa di diverso, ma trasformati in qualcosa di opposto a ciò che erano prima»… «Sarà diverso anche tutto ciò che si accompagna all’attività del pensiero. In effetti il pensiero non esisterà più, almeno non come lo intendiamo ora. Ortodossia vuol dire non pensare, non aver bisogno di pensare. Ortodossia e inconsapevolezza sono la stessa cosa.»
(George Orwell, “1984”, parte I, cap. V)
Quando la riscoperta vivaldiana è arrivata agli strumenti d’epoca si è assistito progressivamente ad un fenomeno di “rivalutazione” e modernizzazione. L’iniziatore ne fu – ritengo – il mitico Harnoncourt, decidendo fra le altre cose che il famoso cane che si trova a fianco del pastorello dormiente nel movimento centrale della “Primavera” doveva suonare come un vero ed autentico cane: doveva cioè non solo essere un suono “strappato”, ma abbaiare veramente. Una delle cose ammirevoli negli interpreti teutonici è che non nutrono mai alcun dubbio di sorta: vanno diritti e sparati al dunque delle cose che intendono illustrare senza suscitare mai la minima interrogazione in chi li ascolta. Il cane, è evidente, è un animale che abbaia, e guai d’ora in avanti ad avanzare la pur minima ipotesi che tutto quanto è scritto nei sonetti dimostrativi delle Quattro Stagioni sia da illustrarsi musicalmente in modo simbolico e figurato, non veristico. Perché il verismo parla una lingua molto più contemporanea – e dunque più immediatamente comprensibile alle masse – di una ipotetica lingua metaforica e simbolica. Harnoncourt per primo, e stuoli di esecutori dopo di lui, hanno trovato fertilissimo terreno nei concerti di Vivaldi per sdoganare una nuova immagine della musica del settecento. Gli strumenti “originali” o “autentici” sono divenuti sinonimo di brillantezza, velocità ed effetti dinamici estremi, e tutto ciò si è rivelato fondamentale per far presa immediata sul pubblico e spazzare via il vecchiume di esecuzioni moderne ingessate e oramai prevedibili, sorde ai risultati delle più recenti ricerche musicologiche. Nessuno però ci è venuto mai a spiegare perché tutti i grandi compositori esistiti prima, durante e dopo l’epoca di Vivaldi – e lo stesso prete rosso – abbiano voluto destinare molte parti maschili delle loro opere alle voci acute dei castrati. Eppure tali parti erano destinate a virili personaggi d’opera come Nerone, Giulio Cesare, Orlando e così via: di certo non era l’aderenza alla realtà l’obiettivo dei compositori. Nel “Barocco” l’oggetto poetico non è mai vero in sé, ma solo in quanto rifratto e moltiplicato, inventato da una nuova sostanza. E comunque il verismo nel canto operistico è tornato a trionfare anche nell’opera barocca che ascoltiamo ai nostri giorni: sembra che non siamo capaci di concepire un’arte musicale e teatrale che non parli la nostra lingua attuale ed abbia tempi e stili differenti. Il che, trasposto nelle altre arti, porterebbe a qualcosa di mostruoso: ve lo immaginate cosa accadrebbe a quadri e strutture architettoniche antiche se noi rifiutassimo di accettarne il linguaggio originale e di metterci in comunicazione con esso? Eppure in questo campo sono tantissime le persone che si sono abituate a decifrare il linguaggio simbolico dei quadri antichi ed a gustarne il significato, a sognare con le sue metafore. Perché lo stesso non può avvenire con la musica coeva? Siamo purtroppo abituati a considerare la validità di un qualcosa, di una espressione culturale, solamente in relazione alla sua vicinanza con le abitudini che abbiamo acquisito, mentre spesso ciò che conta non sono tanto le cose che accomunano un’estraneità alla nostra “normalità”, quanto le distanze che le separano, vale a dire le nostre diversità. Noi tendiamo cioè a ritenere più valido in assoluto ciò che ci somiglia, invece che cercare la ricchezza nella comprensione di ciò che ci risulta nuovo, e quindi più interessante per la nostra crescita. Una delle importanti caratteristiche della musica è il suo essere aleatoria ed effimera, il perdere subito la memoria della esecuzione appena terminata ed il profumo della sua origine. Qui emerge la responsabilità dell’artista, se questo artista si fa “interprete” del compositore, cioè tenta di tradurre il linguaggio del compositore, fatto di segni, piuttosto che farsi unicamente portavoce di sé stesso (o delle proprie furie isteriche, della propria sete di notorietà e danaro). La musica di Venezia non è quella musica asciutta, secca e tagliente a cui ci ha abituato il “sound” di questi ultimi anni: sarebbe semplicistico vedervi unicamente l’immagine della musica rock del ‘700, basata su di un impianto fortemente ritmato, tempi senza limiti di velocità e via andare con l’immaginazione senza freni, autorizzata a qualsiasi tipo di provocazione. La libertà improvvisativa significa piuttosto conoscenza precisa di uno stile ed organizzazione delle proprie idee e capacità in quell’ambito: libertà non è una cambiale in bianco ma responsabilità, e la musica non fa eccezione a questa regola dell’etica. La responsabilità dell’artista – dunque – sta nel riproporre alla società d’oggi un’immagine plausibile ed il più possibile veritiera, di quella società tramontata, proprio perché bella ed intrigante, malinconica o splendente come i suoi quadri. Linguaggio morto e non più valido se non viene “attualizzato”? Io non credo che esistano lingue morte, ma “solo cervelli in letargo” (Carlos Ruiz Zafón). Lo dimostra la cultura veneziana tutta nel XVIII secolo, lo dicono i quadri di Tiepolo, Canaletto e Longhi, lo dicono le porcellane in cui si sorbiva il “brodo indiano” ossia la cioccolata calda piuttosto che non il caffè: questa musica non è asciutta, secca e squadrata ma è umida, e possiede la rotondità del buon carattere dei vecchi veneziani, apparentemente burberi, ma pieni di bontà non appena si abbia la possibilità di conoscerli un po’ a fondo.
Guardate queste due immagini: la prima è un particolare tratto da un piccolo dipinto di Pietro Longhi, testimone oculare della vita e del gusto veneziano del ‘700. Ci presenta una dama intenta alla toeletta, assistita da due cameriere, in un ambiente nel quale compaiono alcuni mobili tipicamente veneziani come il “servomuto”, o servidor, che sorregge lo specchio (Venezia, Ca’ Rezzonico). Osservate le forme di questo e degli altri mobili, le loro linee curve e sinuose, caratteristiche di un’epoca in cui si aveva orrore delle linee esclamative e diritte, mentre si ricercavano forme più interrogative e rotonde.
Comparatela ora con la seconda immagine: quella di una delle numerose belle lampade di design italiano contemporaneo (Kundalini). Noterete subito le sue linee asciutte e secche che si corrispondono con grande essenzialità. Il tutto non proietta un messaggio di ambiguità, ma una sicurezza diritta e tagliente, tipica del gusto contemporaneo.
Il suono sul violino barocco e sugli altri strumenti ad arco è il risultato di un design. Questo design viene tracciato nell’aria principalmente dalle dita della mano destra che incidono sulle corde, e, variando continuamente le proporzioni fra velocità e pressione dell’arco, tratteggiano forme e pennellano colori. Vi possono essere precisi riferimenti estetici – consci o inconsci che siano – per questo design, che può essere suscettibile di cambiamenti a seconda della fonte di ispirazione. Un semplice, serio confronto con la città di Venezia, con le sue architetture, con i suoi dipinti, con tutte le sue arti potrà essere eloquente più di qualsiasi altra cosa. Se qualcuno crede che la cultura veneziana del ‘700 sia sinonimo di dubbio gusto o vede in essa solo quel parzialissimo lato della libertà sfrenata del carnevale, così come oggi lo si intende, si sbaglia di grosso; lo storico Car Naval, il periodico rovesciamento dell’ordine costituito, ha continuato a vivere fino a quando la concezione del tempo ciclico (dell’eterno ritorno) non è stata definitivamente sostituita da quella lineare, funzionale alla nuova civiltà che privilegia un tempo omogeneo dove non vi è più spazio sociale per le feste, ma è solo specchio di una disperazione rimossa nel perpetuo divertimento, quel divertimento che dal latino Diverto significa volgersi altrove, ovvero fuggire. Così Vivaldi è diventato in questa nostra epoca ricettacolo di tutto quello che di esagerato, sfrenato e volgare abbiamo in noi e normalmente non riusciamo o non possiamo (perché non autorizzati) esprimere in altre manifestazioni o in altri tipi di musica della stessa epoca. Al tempo stesso il linguaggio musicale con cui la sua arte viene assai spesso riletta si va conformando sempre più ad uno schematismo di segno quanto mai contemporaneo, figlio di quella stessa estetica moderna che in realtà – quando si iniziò a suonare su strumenti d’epoca – si voleva combattere. Le strutture aperte e trasparenti del prete rosso hanno involontariamente costituito terreno di caccia illimitato per tutti coloro che avevano bisogno di dire qualcosa di estremo, e, come spesso accade, con estrema povertà di linguaggio: infatti il progressivo impoverimento e imbastardimento del nostro linguaggio parlato si sta riflettendo fedelmente nelle esecuzioni musicali contemporanee. Oggi la musica tende in molti casi a riprodurre la funzione dei mass-media: quella di parlare continuamente, comunicare instancabilmente a senso unico: questa è la violenza perpetrata contro l’essere singolare e il suo segreto. E al tempo stesso è una violenza contro il linguaggio che è ridotto a essere solo tramite, operatore di visibilità, privato delle sue dimensioni ironiche o simboliche, in cui il linguaggio stesso conta più della cosa di cui si parla. Ma la musica è interrogazione: quando l’interrogazione si perde rimane solo il rumore, come molta musica di adesso (come il cane che abbaia a tutta forza e rischia – fra l’altro – di svegliare dal suo sonno il pastorello dormiente). E’ falso che si debbano “attualizzare” le espressioni artistiche all’estetica del momento: nessuno può affermare che il nostro senso estetico sia migliore di quello dell’epoca di Vivaldi o che con esso non si possa al giorno d’oggi raggiungere una valida forma di comunicazione. E poi, chi ci assicura che il nostro attuale senso estetico non sia in realtà orrendo? “Demandez au crapaud ce que c’est que la beauté et il vous répondra que c’est la crapaude” [Chiedete al rospo che cosa sia la bellezza e vi risponderà che è la femmina del rospo] (Voltaire). Credo che sarebbe necessario ripensare dalle radici la natura e la funzione del «classico» di marca occidentale, individuandone le peculiarità distintive (se ve ne sono) che siano rimaste in vita e abbiano ancora qualche significato, anche entro un contesto marcatamente multiculturale come il nostro. Conciliare l’attenzione a un contesto tanto mutato con una puntuale consapevolezza storica del «classico» nella sua specificità è ambizione tutt’altro che ovvia. Vi si oppone in primo luogo la concentrazione ossessiva ed esclusiva sul contemporaneo, tanto caratteristica del nostro tempo, che allontana lo sguardo dal «classico» come, più in generale, dalla storia, salvo la più recente. Questa concentrazione sul contemporaneo si spiega forse per l’ansia di intendere l’enorme complessità di un mondo «globale», limitandosi a conoscerlo quale esso è oggi (e lo sforzo è già grande). Ma gli eventi della storia (anche solo di uno o due secoli fa) tendono così a parere poco interessanti, oppure ad essere evocati saltuariamente in funzione dell’attualità politica (per esempio americana), dotandoli di una sorta di contemporaneità fragile ed effimera, con una data di scadenza. Il passato si appiattisce sul presente, viene assimilato ad esso in virtù del suo uso strumentale e costretto entro una soffocante simultaneità virtuale col presente, non tanto diversa dalla frequente petitio principii per cui si dà per scontato che le altre culture debbano condividere i valori della nostra. Si tende in tal modo a non riconoscere le diversità (nello spazio e/o nel tempo), o a minimizzarle; è in questo senso che secondo un professore di Berkeley, Nezar Al Sayyad, l’Europa sta abbandonando la propria memoria storica e non sa più vedere se stessa come un prodotto della storia, ma identifica ormai la propria tradizione solo nella modernità, e cioè in valori dati per indiscutibili; ma allora “nessun cambiamento è più possibile, una volta che l’ispirazione del cambiamento [la conoscenza del proprio passato] è stata sconfessata” (Kevin Robins).
IV : I PONTI
Qualche giorno fa avevo un poco di tempo libero ed era una bella giornata, una di quelle giornate invernali in cui la primavera inizia a mandare vaghi segnali e lontani, ma chiari. Ero a Venezia e, terminato quello che avevo da fare, mi sono lasciato libero di andare fra le calli, mi sono perso fra i canali ed i mille ponti e ponticelli che li attraversano. In mezzo a quella che potrebbe essere definita una metafora del nostro tempo (tutti sembriamo zattere in viaggio alla deriva, tenute insieme da un reticolo di fragili ponti) ad un tratto mi è balenato in mente un brano di Ivo Andric (1892-1975), scrittore serbo e premio Nobel:
“Di tutto ciò che l’uomo, spinto dal suo istinto vitale, costruisce ed erige, nulla è più bello e più prezioso per me dei ponti. I ponti sono più importanti delle case, più sacri perché più utili dei templi. Appartengono a tutti e sono uguali per tutti, sempre costruiti sensatamente nel punto in cui si incrocia la maggior parte delle necessità umane, più duraturi di tutte le altre costruzioni, mai asserviti al segreto o al malvagio. ( … ) Diventano tutti uno solo e tutti degni della nostra attenzione, perchè indicano il posto in cui l’uomo ha incontrato l’ostacolo e non si è arrestato, lo ha superato e scavalcato come meglio ha potuto, secondo le sue concezioni, il suo gusto e le condizioni circostanti. ( … )
Così, ovunque nel mondo, in qualsiasi posto, il mio pensiero vada e si arresti, trova fedeli e operosi ponti, come eterno e mai soddisfatto desiderio dell’uomo di collegare, pacificare e unire insieme tutto ciò che appare davanti al nostro spirito, ai nostri occhi, ai nostri piedi, perché non ci siano divisioni, contrasti, distacchi…
Così anche nei sogni e nel libero gioco della fantasia, ascoltando la musica più bella e più amara che abbia mai sentito, mi appare all’improvviso davanti il ponte di pietra tagliato a metà, mentre le parti spezzate dell’arco interrotto dolorosamente si protendono l’una verso l’altra e con un ultimo sforzo fanno vedere l’unica linea possibile dell’arcata scomparsa. E’ la fedeltà e l’estrema ostinazione della bellezza, che permette accanto a sé un’unica possibilità: la non esistenza.
E infine, tutto ciò che questa nostra vita esprime – pensieri, sforzi, sguardi, sorrisi, parole, sospiri – tutto tende verso l’altra sponda, come verso una meta, e solo con questo acquista il suo vero senso. Tutto ci porta a superare qualcosa, a oltrepassare: il disordine, la morte o l’assurdo. Poiché, tutto è passaggio, è un ponte le cui estremità si perdono nell’infinito e al cui confronto tutti i ponti di questa terra sono solo giocattoli da bambini, pallidi simboli. Mentre la nostra speranza è su quell’altra sponda.”
Vivete felici
Enrico Gatti
marzo 2006