Testo scritto nel 1997 per il booklet della registrazione integrale delle sonate a tre op.III di Arcangelo Corelli (2 CD ARCANA A402)
© riproduzione riservata
“C’è un legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio... la nostra epoca è ossessionata dal desiderio di dimenticare, ed è per realizzare tale desiderio che si abbandona al demone della velocità; se accelera il passo è perché vuol farci capire che ormai non aspira più ad essere ricordata; che è stanca di se stessa, disgustata di se stessa; che vuole spegnere la tremula fiammella della memoria.” (Milan Kundera)
Central Park, Manhattan, lunedì mattina
PIPPO : Che ci facciamo adesso qua? Mi sento, la mattina dopo il concerto, scosso, stravolto e scarico come un fucile sparato...
STANISLAO: E’ che i nostri corpi hanno viaggiato troppo velocemente nelle ultime ore... fermiamoci un poco; vieni, sediamoci su questa panchina: abbiamo bisogno di aspettare le nostre anime...
P.: Mi viene in mente una cosa: sai che il volo con cui sono arrivato era della Pakistan Airways: ebbene, è cominciato con la preghiera del profeta Mohammed; è stato un attimo in cui mi sono lasciato stregare, e quel canto profondo e concentrato mi ha preso le viscere... era un canto lento e misterioso, ma andava sicuro dritto dentro l’anima...
S.: Sono quei rari momenti in cui ci rendiamo conto di vivere una contraddizione: la musica di cui ci occupiamo appartiene ad un’epoca nella quale era ancora influente la cultura di un primato indiscusso della vita contemplativa sulla vita attiva. Ma il modello di vita pragmatista - che non è il nostro modello storico - si è oggi imposto quasi ovunque, e quindi anche nel modo di rivisitare la civiltà di ieri. Non ci fermiamo più a contemplare...
P.: Beh, certamente la perdita di una visione prospettica ampia nel rapporto presente-passato è uno degli indici più appariscenti dei periodi di decadenza culturale... però che ci possiamo fare? Questo è il periodo in cui ci è dato vivere... Ma cos’hai? Hai un’aria decisamente melanconica, oggi...
S.: Si, vivo melanconicamente il tramonto della nostra cultura che sarà (è già...) rimpiazzata da qualcos’altro, anche se non credo che questo qualcosa sia migliore. Il mondo di oggi non ci lascia più lo spazio sufficiente per vivere e prendere respiro artistico. L’industria culturale preme ed incalza, dominata dalla legge della produzione: ha bisogno continuamente di nuovi prodotti, e quando non ci sono li fabbrica; il suo ritmo è infinitamente più veloce di tutto e consente di vivere solo venendo a patti con i suoi brutali procedimenti... In realtà andiamo più veloci, ma non siamo migliori.
P.: Vorresti dire che non credi nel progresso?
S.: Credo nell’affinamento delle tecnologie, nell’ampliamento del sapere scientifico. Non credo nel miglioramento dell’uomo, se è questo che intendevi. Gli uomini del futuro non saranno migliori, cioè più buoni e intelligenti, di quelli del passato, e lo dimostra semplicemente un fatto: l’arte, la più “umana” di tutte le attività, non progredisce: i poemi di Omero o le statue di Fidia non sono inferiori alla “Commedia” di Dante o alle statue di Michelangelo. Guardati intorno: oggi tutti cercano novità, e questo ricercare è la prova appunto che la situazione culturale ha compiuto il suo ciclo. Le novità non si cercano ma si offrono, come non le cercò ma le offrì Caravaggio. La melanconia, questo veleno radicale ingenito nel corpo, mi fa soffrire del disordine convulso, della chiassosa confusione, della mancanza di rigore intellettuale che ci circonda e in cui tutto, se non si fa attenzione, finirà per sprofondare. Noi ci troviamo qui adesso, ma in realtà dove siamo? Siamo partiti da un punto conosciuto, amato: gli antichi e la loro musica, ma loro erano veri, esistevano come erano... Noi chi siamo, e, dopo tutto questo cammino, dove siamo arrivati? La verità, temo, è che siamo come una navicella perduta a spasso nello spazio...
P.: Forse hai ragione, però bisogna fare attenzione: in genere quando si parla di tempi e culture passate lo si fa o con il tono scherzoso e l’aria di superiorità tipici di chi si considera più evoluto, oppure con grande nostalgia, immaginandosi tutto più bello ed ideale. Questi atteggiamenti sono due povertà che si scambiano facilmente l’una con l’altra, sviluppando una visione distorta del passato. Quelli che la pensano come te sono sempre esistiti, senti qua:“Molta velocità, e poca dolcezza; molta leggierezza e poca espressione, e poco fondo; molta di quella difficoltà stravagante e bizzarra che sorprende senza muovere, e niente di quella che è legata alle regole fondamentali del contrappunto, e del buon gusto che ammirasi nelle sonate scritte con rigor geometrico dal Corelli, dal Tartini, ed in quelle d’un gusto più raffinato, benchè meno profonde, del Pugnani, Giardini, e d’altri. In oggi si corre molto, perché s’ha timore di fermarsi.” (1). Forse codesta tua vena melanconica si sentirà rafforzata, trovandosi in così buona compagnia; salvo il fatto che questa è la compagnia dei conservatori, di coloro che sono nostalgici del passato...
S.: No, io non sono nostalgico del passato: da molto tempo ho capito che il passato è come un paese straniero, in cui la gente fa le cose differentemente, con altre abitudini e altri gusti...Noi dobbiamo trasmettere la cultura senza creare né complessi di superiorità né sindromi da nostalgia; ma lo stato d’animo melanconico è temperamento di «reminiscibilitas»: il melanconico riceve le impressioni delle immagini più saldamente e le conserva più a lungo delle persone di altro temperamento.
P.: E tu pensi che la nostra melanconia di fine secolo possa essere in qualche modo simile a quella di fine ‘600?
S.: Non lo so proprio, però sento la musica di Corelli così bella nella sua assorta e melanconica contemplazione, come in una tavola del Perugino... e mi dispiace che anche la musica di quel periodo venga oggi usata con i tempi e le accentuazioni eccitate e sfrenate che caratterizzano la nostra epoca: è divenuta un giocattolino, uno “scacciapensieri” che suona facile all’orecchio, che deve fluire veloce come veloce fluisce la nostra vita, la nostra fuga da tutto. Oggi la velocità si configura fra i valori dominanti; la pseudo-filosofia del correre - inevitabile in una civiltà tecnologica - invade i luoghi deputati alla vita dell’intelletto, influenzando la vita dei sentimenti. Noi viviamo in un secolo che ha seppellito i pensieri sotto le immagini, dando origine ad una vera e propria mutazione genetica della sensibilità e del modo di percepire il mondo: vediamo molto, e ci accorgiamo di poco... Ma umiliando la lentezza si umilia l’anima, quella qualità senza la quale una società muore per asfissia mentale, per volgarità.
P.: Io credo che la musica veloce costituisca una sorta di anestetico per noi: abbiamo tutti bisogno di essere anestetizzati per sopportare la vita...
S.: Io non voglio che la mia musica sia trangugiata come una pasticca d’ecstasy... piuttosto vorrei che si spandesse come un balsamo benefico, un massaggio sulle ferite - mai ben cicatrizzate - dell’anima.
P.: Sì, però non ho capito perché vuoi fare un disco con delle sonate a tre da chiesa: lo sai che alla gente piacciono piuttosto le cose solistiche, che amano vedere una persona con i riflettori puntati addosso...
S.: Già, tutti accendono, illuminano per vedere... E io invece vorrei spegnere la luce... E’ falso che sia la vista il dono più bello: è il suono, l’orecchio. I poeti, i cantori erano ciechi per questo. Cecilia vuol dire “cieca”!
P.: Tu pretenderesti di praticare una sorta di digiuno degli occhi e delle immagini per scacciare l’abitudine di voler vedere tutto...
S.: Cerco una musica bella perché semplice: semplice e umile come una preghiera, perché non sappiamo più pregare, presi come siamo nel nostro delirio d’onnipotenza tecnologica; per noi che sembriamo avere smarrito il sentiero dell’umiltà ed imbocchiamo solo autostrade... C’è un qualcosa, come un’oscura nostalgia, che mi dà la misura dello stato di caduta in cui mi trovo, in cui tutti versiamo... è un morso crudele, una ferita dello spirito, un puro desiderio senza contenuto. Non lo posso afferrare concettualmente e neppure nominare, ma solo dire: non è questo, non è quello. Eppure, a risvegliarne in me la presenza è la percezione di una cosa determinata, è il mostrarsi della bellezza. L’anima può allora volgersi all’oggetto che le ha suscitato il sentimento di un’assoluta mancanza e tentare di possederlo... ma così, inevitabilmente, si perde; allo stesso modo di Narciso, non farebbe altro che abbracciare il proprio struggimento e dunque il proprio mortale riflesso. Ma se l’anima converte la propria brama di possesso in contemplazione, è salva. Vedi, noi artisti portiamo con noi l’idea della necessità della bellezza, di quella bellezza che non è semplicemente l’armonia o la perfezione della forma, ma provoca l’intelligenza a scoprire cosa si cela dietro di essa; la bellezza che non è al termine di un processo, ma è l’origine che mette in cammino il pensiero. E perciò credo che non ci fu mai dono migliore che l’uomo abbia potuto offrire all’umanità di quando, trovandosi nel più profondo della propria anima, ha parlato di sé stesso.
P.: In ciò siamo d’accordo, però mi sembra che questa musica così rifinita e quasi “leccata” possa suonare come una sontuosa e convenzionale celebrazione di quei potenti mecenati corelliani, principi e prelati, simbolo terreno e vivente di un Dio irraggiungibile, di un Dio-padrone...
S.: Direi piuttosto che Corelli godette di una posizione privilegiata, avendo la possibilità di esprimersi liberamente secondo le sue necessità artistiche, senza dover rendere forzati omaggi ai suoi protettori. Non sembra fosse un “lecca-piedi”, e neppure un carattere sfrontato (l’episodio dell’accademia in cui depose il violino “per non disturbare la conversazione” lo confermerebbe), d’altra parte, pur essendo una persona pacata - come lo descrivono fra gli altri Geminiani e Hawkins - sapeva essere ricco di fuoco e determinato all’occorrenza, come nel caso della polemica a distanza con Colonna sul famigerato passo di quinte...
P.: Uno che si sa esprimere senza dover gridare più forte degli altri?
S.: Quella che si chiama la solidità dello stile... I tempi e i modi della sua produzione sembrano delineare un percorso creativo lento e particolare, quasi come una distillazione alchemica, tanti sono gli anni che intercorrono fra un’opera e l’altra.
P.: Già, perché ci vuole tempo: la “nouvelle cuisine” fa le cose veloci...e un po’ crude; la vecchia cucina come quella della nonna Vittoria è invece quasi un’alchimia, che bollendo le cose - per esempio una semplicissima salsa di pomodoro - le trasforma chimicamente.
S.: Alchimia è lentezza, cioè durata e stabilità: vuol dire dare forma e significato ad una durata, la sacralità di un gesto intenso ed assorto, perché lento... Come l’alchimia compositiva di Corelli, che faceva “cuocere” per anni le sue sonate e le limava in tutti i dettagli prima di darle alle stampe. Così si spiega anche perché questa musica non solo ebbe subito un grande successo, ma venne continuamente ristampata fino ai nostri giorni: la trasformazione alchemica assicura la sua stabilità, impedisce che deperisca.
P.: Mi fai ricordare la “Porta Magica” di Piazza Vittorio a Roma, l’unico rudere rimasto in piedi della villa sull’Esquilino appartenuta al marchese Palombara, alchimista e gentiluomo della corte di Cristina di Svezia. La scritta sull’architrave della Porta (che era ingresso al laboratorio alchemico), decifrata, significa: “Non si entra nel giardino delle Esperidi se non si uccide il drago che ne è alla porta” ; cioè se non si vince il drago, simbolo delle passioni e degli istinti, non si accede al mitico giardino dove, purificato il nostro linguaggio, può compiersi il cammino iniziatico, il processo di trasformazione.
S.: Una sonata a tre di Corelli è un po’ il frutto di questo processo: pochi brevi movimenti, ognuno dei quali è un distillato di grazia, stile e buon gusto...poche pennellate date lentamente, ritoccate con cura su un disegno lungamente preparato. C’è solo quello che è necessario, nemmeno una nota di più. Pochissimi minuti e si è già esaurito: non è musica da consumare, ma da centellinare, a goccia a goccia come un vino da meditazione - il nostro Sagrantino da Montefalco - sorso dopo sorso, dettaglio per dettaglio, pennellata dopo pennellata gustandone i colori luminosi ma sempre sapientemente armonizzati, il chiaro-scuro che non vuole ferire l’occhio... Corelli sa attirare la nostra attenzione grazie alla solennità, all’importanza del discorso, come con dei magici versi il cui ritmo ci obblighi ad una lenta declamazione. Il suo passo è lento e soave, e produce non l’impressione che il tempo sia abolito, ma quella di venire introdotti in un tempo che avremmo sempre voluto conoscere e non conosciamo: il tempo allo stato puro, quella vasta fluidità che nessun balzo o ostacolo interrompe, quella felice liquidità che si riforma intorno a noi come la superficie di un lago quieto, ogni volta che ritroviamo un suo adagio. I tempi sono necessariamente lenti perché la velocità non potrebbe aggiungere nulla di bello a questa musica, anzi ne sconvolgerebbe i ritmi interiori, il progetto architettonico.
P.: Ma insomma: sono anni ed anni che in tutte le parti del mondo considerano noi italiani come degli istrioni e la nostra arte musicale come quella estroversa per eccellenza... e tu adesso vorresti presentarne un’immagine completamente diversa?
S.: Di quale musica “italiana” stai parlando? Sicuramente non di quella che ha conosciuto Purcell, il quale scrive, nella prefazione delle sue “Sonatas of three parts” (1683), di avere “faithfully endeavour’d a just imitation of the most fam’d Italian Masters; principally, to bring the seriousness and gravity of that Sort of Musick into vogue, and reputation among our Country-men, whose humor, ‘tis time now, should begin to Loath the levity, and balladry of our neighbours”. E bisogna pensare che Purcell aveva trascritto in partitura e studiato , oltre le sonate a tre di Lonati e Colista, le sonate a tre dell’op.I di Corelli, quelle sonate da chiesa dedicate a Cristina di Svezia e pubblicate a Roma due anni prima: questi sono i modelli di “gravità” e “serietà” che un musicista del calibro di Purcell addita ai suoi conterranei quando parla di “power of the Italian Notes, or elegancy of their Compositions”... No, io credo che gli “istrioni” siano buoni per suonare “alla frascata”, come diceva il vecchio Rognoni (2), oppure sotto il ponte di Rialto per rassicurare quegli stranieri che hanno tanto bisogno di una “certa” immagine dell’Italia...
P.: Effettivamente non si può negare quanto significativo sia il fatto che negli anni 1682 / 1692 contemporaneamente a Londra e a Parigi due genii come Henry Purcell e François Couperin - che non erano in contatto fra loro - abbiano avuto la stessa intuizione: che per rinnovare la musica strumentale nazionale fosse necessario ricalcare la forma italiana, seguire l’architettura dell’Arcangelo “bolognese”. Ho l’impressione che Purcell e Couperin siano rimasti colpiti dalla essenziale sinteticità del linguaggio corelliano, quello stile proprio della poesia, piuttosto che della prosa: prima il “porre” - la scrittura in distensione - e poi il “torre”, l’operazione di sottrarre nella fase della concentrazione: l’ideale poetico sarebbe di torre tutto ciò che è inutile, cioè raccontare sinteticamente aprendo verso l’infinito, creare un qualcosa di contenuto nell’espressione dell’autore ed espansibile nell’immaginazione di chi ascolta... Effettivamente mi sono reso conto che non è sempre necessario dire tutto: ho cominciato a pensare che sia molto più vero ed importante ciò che qualcuno tace piuttosto che quello che dice; così, tutto sommato, quello che ci intriga e più ci spinge a conoscere è ciò che non sappiamo di noi, degli altri, della vita...
S.: Questa parziale rinuncia Corelli l’ha fatta ed ha trovato la cosa più importante in materia di gusto: la cifra, il senso della proporzione fra le diverse parti che costituiscono il discorso musicale, la corrispondenza negli accostamenti, la varietà nei contrasti senza calcar la mano; qui s’ingrippano tutti coloro che hanno bisogno di andarsi a sbattere contro muri di note, che hanno bisogno di velocità. In musica come in scultura è necessario togliere tutto il superfluo per lasciare visibile allo scoperto una forma chiara e bella. Togliere, non aggiungere. Il bello è racchiuso, imprigionato e celato in un eccesso di materiale, e va liberato da esso.
P.: E tu credi che gli ascoltatori possano intendere anche ciò che si tace?
S.: Si, se sono degli ascoltatori avvertiti; ma se lo sono sanno che si arriva a conoscere veramente soltanto attraverso lenti avvicinamenti: la conoscenza è una luce che si irradia a poco a poco da tanti punti diversi, in modo sempre più chiaro. Non è una luce tagliente che rischia di illuminare alcuni dettagli abbagliandoli e facendo rimanere il resto in ombra, senza permetterci di cogliere il senso di unità in ciò che osserviamo. Corelli è un po’ come Perugino: lento, quasi immobile. Ma le montagne, i laghi che si perdono lontano nei cieli cristallini dei ritratti, delle annunciazioni o delle natività riflettono lo spirito ed i sentimenti delle figure collocate in primo piano. I personaggi di Vannucci ci possono sembrare quasi convenzionali, privi di pensiero, ma gli alberi, i laghi e i monti parlano dei loro segreti. L’importanza, il valore ed il significato della musica non risiedono in sé stessa, ma in quello che si produce in noi mentre la suoniamo ed ascoltiamo, in ciò che siamo dopo averla suonata o ascoltata.
P.: Il tuo paragone con la lentezza - quasi sospensione - del Perugino mi fa avvertire una dissonanza: oggi si lavora generalmente in fretta (pochi soldi, poco tempo, poche prove) e ciò che serve è un effetto assicurato...
S.: Già, e ce n’è anche un’altra di dissonanza; Corelli prima ancora che violinista era compositore: pensava a certe precise regole, ad uno stile di condotta delle parti, ai tuoni, alle cadenze, alle imitazioni... e quando questa scienza compositiva va nelle mani di quei semplici manovali dello strumento che siamo noi oggi c’è uno scontro di mentalità divergenti...
P.: Come diceva quel buontempone di Galeazzi “siamo inondati da una truppa di spaccalegna che spietatamente sbacchettano il Violino...” (3).
S.: Non era certo il caso di Corelli... è poi lui stesso a confessare in una lettera del 1708 al Principe Palatino del Reno la lentezza del proprio modo di procedere con queste parole: “avendo sin’ora sperimentato, che doppo molte, e lunghe correzzioni appena aueuo la sicurezza di esporre al pubblico le poche opere dà me mandate alle stampe” (4).
P.: Ma questo non vuol dire che la sua musica non si debba suonare veloce...
S.: No, e Corelli conosceva il significato del termine “presto”, visto anche che lo utilizzò. Però, guarda caso, nell’ambito di tutte le sue indicazioni agogiche questo termine fu scelto solo 3 volte su 403. Naturalmente c’è nella sua opera una grande varietà di movimenti allegri, più o meno mossi a seconda del carattere e della scrittura, però non dovremmo dimenticarci del prezioso racconto di “Monsù” Quantz: “ciò che un giorno si diceva essere suonato molto velocemente, si eseguiva quasi una volta più lento che oggi. Dove erano marcati Allegro assai, Presto, Furioso, si scriveva nella stessa maniera ma non si suonava quasi più velocemente di ciò che oggi si scrive ed esegue Allegretto” ; e più oltre: “è la stessa cosa per la Musica da Chiesa che per le Arie, eccetto però che sia l’espressione che il moto debbono essere più moderati che nell’ Opera, acciocchè non si offenda la santità del luogo” (5).
P.: Ma se vai avanti così, con i tuoi tempi non riuscirai mai a far entrare dodici sonate a tre in un CD...
S.: Cosa vuoi, che scelga i tempi e gli eventuali ritornelli sulla base del minutaggio ideale del disco ?
P.: Però, così facendo, dovrai dividere l’opera in due volumi, e forse il tuo editore francese non ne sarà tanto contento...
S.: Stai tranquillo, gli ho già parlato...
P.: E cos’ha detto ?
S.: Ha convenuto sul fatto che un buon editore è un editore che m’edita...
“Coloro che desiderano richiamare alla memoria si ritraggono dalla pubblica luce in un’oscura intimità: poiché nella pubblica luce le immagini delle cose sensibili sono sparpagliate e il loro movimento è confuso. Nell’oscurità, invece, sono compatte e si muovono in ordine.” (Albertus Magnus, “De Memoria et Reminiscentia”, XIII secolo)
St. Bartholomew’s Church, 109 East 50th Street, più tardi
P.: Il bello delle chiese protestanti è che anche d’inverno sono praticabili, perché ben scaldate, e non vi si agghiaccia come in quelle cattoliche... Ma chissà mai che razza di inverni passava Corelli mentre componeva l’opera terza...
S.: In quegli anni viveva nel palazzo del cardinale Benedetto Pamphili, sul Corso. Vi si era trasferito dal settembre del 1687 in compagnia di Matteo Fornari, il quale per la verità già dal 1682 era stato assunto nell’orchestra del cardinale. Pensa che strano: Pamphili aveva la stessa età di Corelli, essendo nati entrambi nel 1653, ad un mese di distanza. Questo prelato era musicista, musicomane, librettista, mecenate anche nei confronti di Gasparini, dei due Bononcini, di Geminiani e di Alessandro Scarlatti - quest’ultimo lo contese a Cristina di Svezia - ed il suo grande palazzo ospitava persino un teatro costruito secondo i dettami dell’architetto Carlo Fontana. Pamphili portava Corelli e Fornari a suonare al Priorato o nelle sue tenute, organizzava rappresentazioni di suoi drammi e oratori al Collegio Romano, al Seminario Romano, nell’Oratorio della Vallicella o in quello del S.S. Crocifisso in S. Marcello. Le firme di Corelli sul registro di casa Pamphili sono ininterrotte, con la sola eccezione di un periodo nel 1689, in cui probabilmente Corelli fece visita al duca di Modena. Francesco II d’Este (che era nato nel 1660) era grande amante delle arti e della cultura e diede nuovo impulso alle commedie ed alle opere in musica; ma soprattutto egli amò la musica sacra, commissionando un impressionante numero di oratori ai più insigni musicisti dell’epoca. Avendo avuto modo di ascoltare Corelli a Roma nel 1686, Francesco II (come si ricava dagli archivi estensi) tenta di condurlo alla sua corte per il tramite dell’ “Oratore Estense” a Roma, il quale riferisce che Corelli “certo, viene stimato il primo virtuoso d’oggi di nella sua professione”, ma “non vi è dubbio ch’uscisse di Roma, perché qui è troppo stimato, accarezzato e pagato, si può dire, a peso d’oro, come ho inteso da molti”. Corelli rende però omaggio alla stima del giovane duca con una visita e con la dedica delle sonate da chiesa op.III datata 20 settembre 1689. Al 7 dicembre 1689: “Il Signor Arcangelo ha avuto questa sera il regalo di otto libbre d’argento in una bellissima canestra piena di merangolo di Portogallo” da parte del duca, però il musicista è di nuovo a Roma dove il nuovo papa Alessandro VIII, appena eletto al soglio pontificio, con un gesto tipicamente nepotista nomina cardinale e vice-cancelliere della Chiesa il nepote Pietro Ottoboni, distaccando a Bologna in qualità di legato Benedetto Pamphili. A quel punto Corelli e l’inseparabile Fornari riceveranno la protezione di Ottoboni, trasferendosi al Palazzo della Cancelleria. E c’è ancora una cosa: il 1689 è anche l’anno che segna la scomparsa di una grande: Cristina di Svezia.
P.: E’ singolare che le due opere di sonate a tre da chiesa (op.I e op.III) di Corelli siano dedicate a due principi (Cristina di Svezia e Francesco II d’Este) mentre quelle da camera (op.II e IV) sono dedicate a due cardinali (Pamphili e Ottoboni). Ma sicuramente ciò ben s’inquadra nella Roma della seconda metà del XVII secolo, cioè in un ambiente cosmopolita e intellettualmente tollerante che tra l’altro faceva convergere nella città anche personalità portatrici di temi e impostazioni contrari alla cultura ufficiale. Le “Accademie” romane del tardo seicento erano concepite con un carattere tra il culturale ed il mondano ed erano frequentate da quegli “scienziati” che secondo il vocabolario secentesco erano semplicemente uomini di studi, letterati, intellettuali, insegnanti, religiosi, i quali avendo i mezzi sufficienti non avevano bisogno di lavorare. Cristina di Svezia ad un solo mese dal suo arrivo tenne a Palazzo Farnese la sua prima Accademia. Ne seguirono ben altre cinque in cui si discuteva principalmente di questioni morali, primo modesto inizio di quelle sedute che si sarebbero tenute a Palazzo Riario quando Cristina avrebbe fondato una vera e propria Accademia con il nome di “Accademia Reale”. La prima riunione pubblica di tale Accademia ebbe luogo l’11 novembre del 1674 e da allora si susseguirono regolarmente conversazioni dedicate alla letteratura, alla musica, alla poesia e alle scienze.
S.: Sicuramente quello di Cristina di Svezia è un caso fuori dal comune, e credo sia in buona parte frutto della sua formazione. Johannes Matthiae Gothus, umanista e cappellano del re svedese, fu precettore della futura sovrana ed ebbe una decisiva influenza sullo sviluppo della sua moderna concezione dell’uomo, contrapposta a quella che era la tendenza tradizionale della Chiesa: dai pulpiti si ascoltavano generalmente storie di peccato, di diavoli e di dannazione eterna; scopo ultimo del clero era un popolo sottomesso e obbediente. Matthiae voleva invece educare un Uomo retto, che non avesse bisogno di essere aggressivo per affermare sé stesso: credeva in un mondo pacifico e tollerante. Il supporto psicologico della dignità dell’Uomo doveva attingere al rapporto personale con Dio: la comunione individuale con Dio conferiva sicurezza e umile consapevolezza di sé. Era una formazione che si basava sulla conoscenza di sé stessi e sulla capacità di riflessione, così come avviene oggi in un’efficace psicoterapia.
P.: Sembra che Cristina fosse particolarmente disponibile ad accogliere intellettuali di diverso orientamento nella sua Accademia, preparando fra l’altro il terreno dell’imminente Arcadia. La Chiesa, dal canto suo, mirava a non lasciarsi sfuggire il controllo della società intellettuale, e così fu sotto la sua ala protettiva che prese corpo l’Arcadia (Ottoboni vi occupava un posto preminente), con la prima adunanza del 5 ottobre 1690, da poco morta Cristina di Svezia e con tutte le regioni d’Italia rappresentate. Il primo custode generale, Giovan Mario Crescimbeni - che appare nel periodo prearcadico e protoarcadico come l’interprete più sensibile delle richieste del gusto corrente e che fu anche il primo biografo di Corelli - confermò il carattere restauratore dell’Accademia, rivolto ad “esterminare il cattivo gusto, e procurare che più non avesse a risorgere, perseguitandolo continuamente ovunque si annidasse o nascondesse e infino nelle castella o nelle ville più ignote e impensate”. Gli Arcadi, pastori per dilettosa imitazione, portano in quel letterario travestimento la cultura dei circoli cittadini, la disciplina intellettuale e morale della eletta società, inseguono la grazia, i teneri sensi, la bellezza gentile, gli aspetti dolci e piacevoli della vita, con un consapevole intento di rigenerazione spirituale e religiosa, mentre evitano di pari passo l’eroico e l’epico, intonando il proprio canto ad un petrarchismo platoneggiante. Essi si ritrovano tutti nel mito della chiarezza, della semplicità, dell’armonia, del garbato e brioso vivere alla luce di eleganze raffinate e dentro la misura pacifica del ragionevole, di una lieta compostezza di sensi dove il classicismo e il culto della tradizione compensavano le spinte estremistiche ed il piacere dell’aspra querelle. Ai clamori ostentati del barocco l’Arcadia oppone piccole cose e tenui affetti finemente lavorati, resi cantabili in una fluida vena melica. Anche quando si affrontano temi solenni e religiosi in una forma eloquente, declamatoria ed esteriormente grandiosa, sempre vengono trattati con una sostanziale misura, una ricerca di simmetria, di ordine, di articolazione chiara e conclusa, di composizione disegnata più che colorita, di chiarezza anche nell’enfasi, di ragionevolezza anche negli impeti.
S.: E già, noi nella nostra grassa ed ostinata ignoranza continuiamo a chiamare “barocco” tutto un lunghissimo periodo che è caratterizzato invece da principi estetici diversi fra loro, quando non addirittura contrapposti: qui ci troviamo per esempio di fronte ad una vera e propria reazione “anti-barocca”...
P.: A quelle girandole di metafore paradossali, a quell’esibizione rutilante e fastosa tipica del “barocco” l’Arcadia contrappone il ripudio della metafora seicentista, uno stile semplice e chiaro con inclinazione al tono tenue, sentimentale, cantabile. Le arti amarono i fregi, gli ornamenti delicati, le volute aggraziate, i paesaggi silvani e floreali immersi in un’eterna primavera. Comincia l’età dell’occhialetto, del ventaglio, della crinolina, della parrucca candida, della tabacchiera. Tutto spira l’aria di un ritiro dilettoso, non privo di sospirose e dolci malinconie, di volubili graziette, di leziose civetterie mondane e amorose. E’ l’età nella quale alle spade succedono gli spadini, ai calzari le scarpette con fibbie dorate, alle folte capigliature le treccine delle parrucche. E’ tempo di musiche che sembrano delineare nell’aria una lucida geometria sonora. Mai come in quest’epoca furono in auge le arti cosiddette minori, le miniature, gli intarsi, le incisioni, le porcellane. “Questo è il secolo del buon gusto, della delicatezza, della galanteria”, afferma Lorenzo Magalotti (6), e Muratori farà l’elogio di quella “pulitezza e chiarezza di stile che dimestica le materie rustiche e selvagge, che spiana le più ardue, che dilucida le più oscure”. Infatti “non vogliamo tuttavia” - continua - “che lo stile lussureggi, né che la nobile serietà e gravità di alcuni argomenti s’adorni di troppi fiori e di vivaci figure, molto meno di frasche, come avvenne verso la metà del secolo prossimo passato. [....] Desideriamo che la verità e le notizie e le ragioni delle cose si lascino vedere in abito non sordido, non deforme, non troppo rusticano e spiacevole, ma con gli ornamenti che si convengono alla lor dignità e con quel decoro che in tutte le cose dee cercarsi, che s’ama e si cerca dagli uomini veramente nobili e di gusto perfetto” (7). Secondo Muratori il linguaggio deve essere guidato dalla ragione, e avere i requisiti della semplicità sostenuta e della massima comunicabilità, autentico strumento di cultura universale e di divulgazione filosofica.
S.: Ed è proprio qui il segreto del largo successo internazionale che ebbe nel ‘700 il linguaggio corelliano, rispondendo in pieno a tali esigenze. Ma anche Gian Vincenzo Gravina condusse una lotta contro il “malgusto” secentesco concependo la poesia come una favola intrisa di profonda verità e sapienza, atta a sollevare alla contemplazione del puro e del sublime: essa “è scienza delle umane e divine cose, convertita in immagine fantastica e armoniosa”. La poesia autentica contiene sempre, per il Gravina, una sapienza riposta. La sua validità non va pertanto ricercata col criterio delle partizioni retoriche o dei generi letterari, ma con quello della sua utilità ed efficacia; la sapienza e la verità sarebbero irraggiungibili se la fantasia non cercasse di cogliere, pur con il libero concorso delle forme, l’impronta della divina idea segnata nelle cose tutte dell’universo. La fantasia non nell’accezione in cui spesso la intendiamo noi, e cioè immaginazione allo stato puro, ma facoltà che guida l’invenzione a superare il dato sperimentale in direzione dell’idea e carica gli oggetti e gli eventi di valori metaforici e magiche potenze. L’arte è per la “Ragion poetica” severa mitologia, parabola teologica, e Gravina vagheggia un’arte in cui il “vero” sia costituito dalla carica teologica e ideologica. Insomma, Arcadi non sono soltanto i poeti leziosi ma anche gli studiosi che già risentono del pensiero filosofico europeo e robusti scrittori per i quali la restaurazione della classicità non fu accademismo, ma autentica educazione letteraria e morale, per cui quando si dice Arcadia si vuol alludere sì alla società galante e ai poetini e verseggiatori melici che non seppero andar oltre a una grazia trasparente, musicalmente raffinata ma povera di umanità, ma anche a quel movimento culturale sotto la cui influenza anche il ritorno alla classicità non si limita a ripudiare il Seicentismo e a restaurare l’esempio del Petrarca o dei letterati e poeti del Cinquecento, ma a rinnovare la cultura, proseguendo l’opera illuminata della scuola di Galileo e degli storici del secolo precedente. La Poetica seicentistica dell’ingegno e dell’arte fantastica si fonde con quella dell’arte ragionevole e misurata. I contemporanei di Corelli varcano, più che non avessero fatto i loro predecessori, i confini dell’Italia e leggono avidamente le opere dei filosofi e degli scrittori francesi e inglesi, di Cartesio e di Bacone, per esempio: il primo caposcuola francese della filosofia razionalistica delle idee chiare e distinte, il secondo caposcuola inglese della “philosophia experimentalis”, l’indagine sulla natura per mezzo dell’esperimento e dell’osservazione sistematica. Sulla filosofia dell’arte in Italia influirono così le correnti del pensiero europeo, non già supinamente accolte, ma sempre discusse e, per così dire, riscontrate e provate sulla nostra tradizione, dai greci e latini al Petrarca e ai cinquecentisti. L’Arcadia si configura quindi come una civiltà che acquista valori storici o li recupera, tanto che senza di essa non si spiegherebbe il movimento illuministico. Restaura la classicità per un’esigenza vitale di ordine, di chiarezza, di veridicità, definendo con estrema coscienza critica i limiti del capriccio barocco, collocando l’Italia nell’europa moderna.
P.: Però, anche se il cartesianesimo divenne veicolo di diffusione delle idee di progresso scientifico e di secolarizzazione della scienza e della cultura erudita, ciò non equivale a dire che le idee e la cultura non risentissero più dell’influenza della religione e della teologia...
S.: Al contrario. Però si giunse ad accettare che la ragione potesse cercare da sola la verità senza l’assistenza e la guida della rivelazione, anche se la sua critica doveva fermarsi davanti alla religione e alla Bibbia. Il mutamento di prospettiva fu sostanziale. E, seppure nell’Arcadia vera e propria la musica giocò un ruolo secondario, mi sembra di poter dire che Corelli seguì una simile direzione di lavoro, in linea con le istanze razionalistiche ed “antisecentiste”.
P.: Bisogna anche tenere presente che la tradizionale atmosfera degli oratori romani era molto più mistica e devota che in altre parti d’Italia, come Bologna o Venezia, e la scuola romana prediligeva strutture architettonicamente solide e chiare, alla Palestrina, per intenderci (il maestro di contrappunto di Corelli fu Matteo Simonelli, chiamato il “Palestrina del Seicento”) mentre quella veneziana inseguiva una vena ben più coloristica ed ardita...
S.: Ma è pur vero che Corelli fu un prodotto della “dotta” scuola bolognese, ed il fatto che nelle sue opere a stampa egli si dichiarasse tale avrà pure un significato: la caratteristica dei maestri bolognesi è la tendenza piuttosto ad elaborare i modelli e le forme già esistenti che crearne di nuove ed originali, una scarsezza d’impeto creativo bilanciata da una grande virtù riflessiva e metodica. I meriti di Corelli risiedono nella scelta dei materiali e soprattutto nel gusto con il quale li elabora. Come dice Norman Brown “il significato non è nelle cose, ma in mezzo, nell’iridescenza, nell’azione reciproca, nelle interconnessioni, alle intersezioni, ai crocevia”.
P.: Sì, però scusami se obietto che le triosonate di Corelli non hanno caratteristiche tali da poter essere accostate alle grandi opere musicali del periodo, anche solamente per la limitatezza dei mezzi impiegati, per esempio la scarsa estensione della tessitura...
S.: Normalmente ci si contenta di “definire” delle opere o degli autori in un certo modo, di classificarli o, peggio ancora, di confrontarli fra loro come se l’arte fosse uno sport, una competizione... Molto raramente ci si chiede perché l’autore ha fatto quello che ha fatto, quali erano i suoi fini (piuttosto che definirlo “limitato”). E’ vero che Corelli scrisse solo per gli strumenti ad arco, che rinunciò ad ogni tipo di trovate estrose, che limitò di fatto la tessitura violinistica a quella vocale, che non fu né innovatore né particolarmente fecondo; ma proprio su questa serie di volontarie limitazioni egli costruì la sua ricerca di perfezione, riducendo al massimo i mezzi esteriori a vantaggio di una euritmia nelle forme e di un’armoniosa concinnitas delle parti, disegnando così la sua inconfondibile e nobilissima parabola vocale ricca di una tensione emotiva che è sconosciuta a tutti gli altri compositori dell’epoca. Certo, nelle sonate a tre da chiesa la tessitura è limitata, la scrittura antivirtuosistica, “francescana” direi, gli acuti quasi proscritti per amore del suono scuro, non al di sopra del registro dei castrati (alcune di queste sonate furono anche trascritte in forma di mottetto vocale). Negli adagi “ce sont de tons qui descendent si bas, qu’ils abiment l’âme avec eux dans leur profondeur; ce sont des coups d’archet d’une longueur infinie, traïnez d’un son mourant qui s’affoiblit toujours jusqu’a ce qu’il expire entièrement” (8). C’è nell’arte di Corelli un’ampia simmetria dei ritmi, una serenità che non è certo ingenua; il suo buon gusto è una questione di proporzioni: la bellezza è proporzione aurea. Sono tutte balle che occorrano pagine bianche, libertà assoluta per essere creativi: in realtà più vincoli ci sono, meglio è! A ben guardare noi stessi siamo una prigione, la vita è una prigione ed il mondo intero, per quanto grande, è una prigione: a cosa giova tentare di andare chissà dove? Ciò che conta non è il dispiegamento quantitativo dei mezzi, ma come questi mezzi vengono impiegati.
P.: D’accordo, ma non si può negare che questa musica suoni un po’ “convenzionale” alle nostre orecchie...
S.: Mettiamo bene in chiaro una cosa: Corelli stava stabilendo dei procedimenti e degli equilibri che solamente dopo di lui sono divenuti “convenzionali” per l’imitazione che ne è stata fatta in tutto il mondo. Non bisogna dimenticare che quando le triosonate di Corelli vedevano la luce per la prima volta venivano pubblicate contemporaneamente in varie città per editori diversi, e che ognuna delle opere conobbe decine di ristampe in tutta europa, più gli arrangiamenti di vari compositori. Io credo che si possa solamente ammirare chi, in un ambiente ricchissimo di fermenti e di proposte, sa crearsi una sua individualità trovando la sintesi equilibrata dei vari elementi ed eliminando ciò che è astruso ed inutile. Ricordati le parole di Gasparini a proposito di “Arcangelo Corelli...che con tanto artifizio, studio, e vaghezza muove e modula quei suoi Bassi con simili legature, e Dissonanze tanto ben regolate, e risolute, e sì ben intrecciate con la varietà de’ Soggetti, che si può ben dire, che abbia egli ritrovata la perfezione di un’Armonia, che rapisce” (9); rammenta il detto di Roger North: “if musick can be immortall, Corelli’s consorts will be so” (10). Una chiara dimostrazione è l’articolo “Suonata” nel “Dictionaire de Musique” di Sebastien De Brossard: “Il y en a pour ainsi dire, d’une infinité de manieres, mais les Italiens les reduisent ordinairement sous deux genres. Le premier comprend, les Sonates da Chiesa, c’est à dire, propres pour l’Eglise, qui commencent ordinairement par un mouvement grave & majestueux, proportionné à la dignité & sainteté du lieu; ensuite duquel on prend quelque Fugue gaye & animée, &c. Ce sont-là proprement ce qu’on apelle Sonates”. E, dopo aver descritto anche le sonate da camera, Brossard termina l’articolo in questo modo: “Voyez pour modele les ouvrages de Corelli” (11).
P.: Io però preferisco di gran lunga le sonate da chiesa: trovo che la maggiore libertà della forma e le risorse dello stile fugato consentano elaborazioni ed approfondimenti ben più interessanti di quanto non permetta la schematica forma bipartita delle danze. Ma una cosa mi sfugge, comunque: quando, in chiesa, queste sonate venivano eseguite ?
S.: Credo che ciò sfugga un po’ a tutti; di certo l’usanza di sostituire brani che in origine erano cantati con musica strumentale era già antica all’epoca di Corelli: in molte chiese si cantavano solo Kyrie, Gloria e Credo mentre l’organo o altri strumenti suonavano durante il Sanctus e l’Agnus. Adriano Banchieri testimonia, fra l’altro, che “Finita l’Epistola suonasi una fugha breve di 40. Pause in circa... Detto il Sacerdote Oremus. Suonasi un Motetto ò altro fin all’Orate fratres... Alla levatione grave, & Piano & Suonata che muovi a devotione... Replicato [l’Agnus Dei] dal Coro, si suona una Franzesina vaga, ma Musicale”, dove “Franzesina” sta per “Brevis Modulatio More Gallico”, vale a dire canzona alla francese (12). I momenti più appropriati per l’esecuzione dei singoli brani delle sonate da chiesa possono essere vari: un preludio grave può essere suonato prima della Messa, mentre al Graduale ben si adatta una breve fuga ed all’Offertorio un pezzo stilisticamente simile al mottetto o al ricercare, di carattere grave. All’elevazione si addice un brano lento e di sapore vocale, ma che sia suonato piano, ricco di dissonanze o cromatismi: “Ellevatio: Si suonera assai largo acciò si godiano meglio le ligature”... “Benedictus & elevatio simul: Largo assai facendo godere le ligature & durezze” (13). Alla Comunione si può suonare una canzona (od un capriccio) alla francese, mentre al Deo Gratias la canzone (breve e allegra) sarà preferibilmente d’altro stile, come quelle danzanti canzoni “romane” che costituiscono a volte i movimenti finali nelle sonate a tre di Colista, Mannelli e Corelli, e che Purcell imitò nelle sue “Sonatas of three parts”. Ma in realtà le sonate da chiesa venivano utilizzate anche nei Vespri, in cui si faceva musica all’inizio, alle antifone ed alla fine (al Deo Gratias). La canzona poteva venire usata in sostituzione di ciascuna delle antifone che seguivano i Salmi o il Magnificat dei Vespri, e nel XVIII secolo il suo successore, come nella Messa, fu il concerto per violino.
P.: Adesso capisco perché nella maggior parte di queste triosonate non viene spontaneo fare diminuzioni: la derivazione polifonica, il senso del “tutto insieme” e quindi la necessaria dipendenza di ogni voce dalle altre, la destinazione di alcuni movimenti lenti per l’elevazione... tutte queste ragioni spesso impediscono una florida ornamentazione, al contrario di quanto normalmente avviene in una sonata a solo...
S.: E’ proprio così, ed infatti, a proposito delle diminuzioni, Roger North spiega che “these are shewed as fine things neer [at] hand solo, but have no use or effect at [a] distance or in consort, and for that reason the best masters in such cases decline them, and sound plain” (14). Naturalmente ci sono dei movimenti (specie in apertura di sonata) che si possono prestare alle “broderies”, ma bisogna sempre tenere presenti le circostanze relative all’esecuzione, come per esempio le dimensioni del luogo e la distanza dagli ascoltatori: oggi si esegue più spesso questa musica nelle sale da concerto, ma in origine erano le chiese ad accoglierla, ed il fatto che in chiesa si facesse molta musica spiega anche perché sovente i cardinali fossero profondi amatori e sostenitori dell’arte musicale, come nel caso dei mecenati di Corelli, Pamphili e Ottoboni...
P.: A proposito dei quali non ti nascondo che il loro atteggiamento mi sembra quanto meno ipocrita: nei loro palazzi hanno offerto ospitalità per quasi metà della sua vita ad Arcangelo Corelli che fu sempre accompagnato da un suo ex-allievo, l’inseparabile ed onnipresente Matteo...
S.: Ascolta: devi pensare all’influenza di quell’ellenismo che costituisce forse sia il complemento che il correttivo del cattolicesimo. Corelli fu quasi un monaco, in quella che ad alcuni appare come un’ “impurità”, e noi siamo piuttosto clowns di una “purezza” mille volte più infetta di quella sua celestiale “corruzione”. Quanto ad Ottoboni, il presidente De Brosses, dopo averlo incontrato un anno prima della morte, nel 1739, così lo descrive: “Il est vieux et cassé, fort décrédité par ses moeurs, ayant toute sa vie été grand ruffien et peu circonspect sur le décorum à cet égard... sans moeurs, sans crédit, débauché, ruiné, amateur des arts, grand musicien” (15). E però mi sembra giusto raccontarti anche di una lettera che Ottoboni scrisse al Papa Clemente XI nel luglio 1703, nella quale caldeggiava il trasferimento dell’Accademia del Disegno dal Campidoglio al Palazzo Riario alla Lungara, già sede di Cristina di Svezia, “aggiungendovi alla Pittura, Scultura, ed Architettura altri studi, che ad un perfetto Cavaliere in Città grande, e massime in Roma sono sì propri à distogliere dà ogni altro inutile, ò vile trattenimento. Sarebbero questi le belle lettere, il maneggiar il Cavallo, il ballo, la scherma, e la musicha; le quali professioni non meno, che le prime dà famosi e valenti Insegnatori dimostrate rimediarebbero al solo difetto di questa gran Corte, che unicamente applicata alla disciplina degl’Ecclesiastici, par’, che del tutto la buona educazione de secolari trascuri” (16).
P.: Insomma la Chiesa “corrotta” del passato proteggeva le libertà individuali... la musica e le arti ricevevano impulso grazie a cardinali più attenti al secolo che non alle cure del divino...
S.: Già, e oggi invece le Muse, non trovando più ricovero nei palazzi, sono tornate a nascondersi nei remoti pendii del Parnaso...
P.: Così si spiega anche più chiaramente la contaminazione fra musica da chiesa e musica da camera operata da Corelli: quell’introduzione nella musica strumentale sacra di danze “mascherate”, non dichiarate...
S.: Io non credo che egli abbia voluto “profanare” qualche cosa; penso piuttosto che abbia inteso offrire a Dio la musica degli uomini, le nostre cose semplici: non solo le malinconie, ma anche le piccole gioie...
P.: E, comunque sia, sta di fatto che nelle sonate dell’opera III ci sono una quantità di andamenti con movenze di danza e caratteristiche tipiche della suite da camera: preludio, overtura, allemanda, corrente, sarabanda, gavotta, menuetto, giga...
S.: Sì, ma ben equilibrati con altri andamenti come la toccata, il fugato, il ricercare, l’aria di lamento, la perfidia, il mottetto vocale, la canzona alla francese o alla romana. Non c’è la ricerca di una forma rigida e fissa, ma l’impiego di un’estrema varietà di risorse che sono combinate in modo continuamente differente. E a questo proposito va detto che noi abbiamo tendenza a fissare nella nostra mente una determinata tipologia per ciascuna danza, mentre una corrente, un’allemanda o una sarabanda potevano avere ognuna vari tipi di connotazioni diverse: basta poi dare uno sguardo alle danze dell’op.IV per farsene un’idea...
P.: In più Corelli, come aveva già fatto nell’opera II, a volte “sacralizza” i temi delle danze tramite esposizione canonica, inversioni ed augmentazioni: abbiamo così allemande, correnti e minuetti fugati.
S.: Ma oltre alle danze ed al mottetto vocale sono la canzone ed il ricercare che, più o meno utilizzati, trasformati ed idealizzati, vengono assorbiti dalla sonata a tre. Corelli riesce a coniugare la scienza contrappuntistica romana con la semplicità, il senso della proporzione armonica (e quindi del sacro) con la danza, espressione della gioia terrena. Come già aveva fatto Carissimi con i suoi oratori, il violinista romagnolo rovescia l’atteggiamento della musica religiosa, che nel gregoriano e nella polifonia aveva soprattutto affermato Dio: qui si loda Dio affermando l’uomo.
P.: Eppure qualche traccia sparsa dell’antica tradizione rimane... non è sempre concretamente tangibile, ma si avverte nell’atmosfera generale di alcune sonate. Un esempio pratico ne è il soggetto del secondo movimento - fugato - dell’op.III n° 2, che è basato su un Kyrie del XII secolo. Corelli rende probabilmente omaggio non solo al canto gregoriano che si udiva regolarmente nelle chiese, ma anche ad una tradizione violinistica di primo piano: Giovanni Battista Fontana aveva iniziato la sua celebre seconda sonata citando lo stesso Kyrie, e don Marco Uccellini nella prima sonata dell’importante opera V si era largamente ispirato a quel brano di Fontana, diminuendo in forma molto libera il gregoriano.
S.: Però quel briccone di Monteverdi si servì di quelle stesse note per il profano “Fugge ‘l verno dei dolori” degli “Scherzi Musicali” e Carlo Mannelli nella terza sonata dell’op.II ne fece una “canzone allegra”: una coincidenza, oppure una testimonianza dell’interazione fra chiesa e camera?
P.: Bah, non esiste risposta certa... ciò che invece mi sembra di poter effettivamente constatare è a volte la ricerca di un intento unitario, seppur di volta in volta differente, in alcune sonate dell’op.III di Corelli: la decima dove non c’è soluzione di continuità fra un movimento e l’altro - che va quindi considerata come un tutt’uno -, la settima caratterizzata dai salti espressivi nei temi di ogni singolo movimento... quanto alla nona, il tipo di basso su cui è in gran parte basata, la rottura sistematica dell’impianto metrico da ternario a binario, l’uso cumulativo delle dissonanze ne fanno un vero e proprio “lamento”. E la dodicesima...
S.: Non mi parlare della dodicesima, di cui già Hawkins ebbe a dire che “ha fatto piangere molti occhi” ! (17)
P.: Già, una sonata senza dubbio molto matura: com’è lontana l’atmosfera delle primissime sonate di Corelli, quelle che egli non ebbe mai il coraggio di pubblicare! E pensare che quelle prime sonate videro la luce solamente molto più tardi, postume, chissà se grazie a Matteo Fornari, che per testamento era stato incaricato da Corelli di pubblicare i dodici concerti grossi dell’op.VI presso Estienne Roger ad Amsterdam. Fatto sta che Roger - fornito da Matteo o da chissà chi altri - pubblicò quelle sonate che sono certamente ricche di buoni spunti, ma di sicuro non così “pulite” e sviluppate come quelle che l’autore aveva preparato per le stampe romane: alcune contengono perfino errori di quinte ed ottave...
S.: Comunque sia amo anche questa musica meno “aristocratica” e più semplice, che mostra ancora un legame assai vivo con la tradizione emiliana: nelle canzoni si sente l’impronta dei varii Giobatta e Giovanni Maria (Vitali, Bononcini, Bassani...), anche se Corelli a volte sembra cercare e sperimentare soluzioni particolari, come nella sonata in sol minore Wo09 nella quale la tessitura del violino discende in basso in modo inusitato e nel cui ultimo tempo viene impiegato un tema ciclico di sette battute anziché di otto. E però le sonate dei maestri emiliani presentavano forme ancora piuttosto libere, quasi rapsodiche; la nuova sistemazione formale di Corelli si deve invece, a mio avviso, al grande lavoro svolto in questa direzione da Lonati, Colista e soprattutto da quel genio che fu Alessandro Stradella...
P.: Quanti nomi illustri, quanta gente brillante, e soprattutto che concentrazione di cultura ! Io - come ti ho detto - non sono un nostalgico del passato, però, vedi, tutto questo gran parlare che si fa oggi della “cultura” mi dà l’impressione di corrispondere ad un vuoto, ad una altrettanto grande mancanza: perché la cultura c’è solo quando la si fa, non quando se ne parla, quando la si studia al microscopio; per gente come Cristina di Svezia ed Ottoboni la musica non era una ciliegina sulla torta, ma un pane da spezzare e condividere ogni giorno, un nutrimento necessario e quotidiano. Una volta i ricchi promuovevano lo sviluppo delle arti, tenevano al loro servizio intere orchestre... oggi preferiscono acquistare calciatori di talento...
S.: Vorresti forse insinuare che se Cristina ed Ottoboni vivessero oggi farebbero i presidenti di una squadra di calcio?
«Habel Habalîm hakkol habel...»
“Un immenso vuoto - dice Qohèlet -, un immenso vuoto, tutto è vuoto !
Che vantaggio viene all’uomo da tutta la fatica in cui si affatica sotto il sole ?
Una generazione va e una generazione viene; eppure la terra sta sempre ferma.
Il sole sorge, il sole tramonta e si affretta al suo luogo.
Va verso sud e gira verso nord il vento.
Il vento, nel suo cammino, non fa che girare: ritorna sempre sulle sue spire.
Tutti i fiumi scorrono verso il mare e il mare non si empie mai;
sempre i fiumi tornano a fluire verso il luogo dove vanno scorrendo.
Ogni discorso resta a mezzo, ché l’uomo non riesce a concluderlo.
L’occhio non si sazia di ciò che vede, né l’orecchio si riempie di ciò che ode.
Ciò che è stato è ciò che sarà, ciò che è stato fatto è ciò che si farà.
Niente di nuovo sotto il sole...
Pensa al tuo creatore nei giorni della tua giovinezza,
prima che vengano i giorni brutti e che ti càpitino anni
dei quali tu dica che non ti piacciono;
prima che si ottenebrino il sole e la luce, la luna e le stelle,
prima che tornino le nubi dopo il temporale...
...Allora la polvere torna alla terra da dove è venuta,
e il soffio vitale torna a Dio che lo ha dato.
Vanitas vanitatum, dixit Ecclesiastes,
Et omnia vanitas.”
(Liber Ecclesiastes, qui ab Hebraeis “Qohèlet” appellatur, 1,2-9; 12,1-2; 12,7-8)
206 Union Street, Brooklyn, a sera
S.: La pancia brucia...
P.: E’ questo caffè che sa di poco, però in compenso contiene molta più caffeina del nostro...
S.: No, il caffè non c’entra nulla: è quel flusso scuro e bruciante che mi traversa le viscere, quella cosa che Ippocrate chiamava “l’umor nero”...
P.: Ma molto più semplicemente si tratterà del tuo difetto enzimatico...
S.: C’è di più, è una pianta urticante che mi è cresciuta dentro: per gli antichi aveva il nome di “ipocondria”. Mi fa viaggiare con la mente e con la memoria... mi provoca dolore. Ricordo che alla fine degli anni ’60 avevo i capelli lunghi e con la chitarra cantavo “Dio è morto”. Adesso so che Dio c’è, ma non è lui che comanda... Tu potresti dirmi dov’era Dio mentre gl’innocenti venivano modernamente e scientificamente eliminati nei campi di sterminio? E dov’era mentre i massacri continuavano in Somalia, in Bosnia e altrove? Perché non dice nulla? Dio ha forse creato il mondo e la morale e poi si è ritirato? “Un Dieu vint consoler notre race affligée. Il visita la terre et ne l’a point changée” (18).
P.: Dio è là dove c’è la sofferenza, ed è nascosto fra le piaghe. Dio non parla per lasciare l’uomo libero nella sua responsabilità. O forse Dio parla, ma non lo sentiamo o non lo capiamo perché ci manca la grammatica della fede, oppure Dio parla proprio col silenzio che non è né mutismo né assenza, ma voce di bisbiglio appena trattenuta. Nella lingua della Bibbia la parola «Ruach» significa ad un tempo vento e spirito... Ti ricordi? “The answer, my friend, is blowing in the wind”... Ma mi sai dire perché ti sei messo in testa di fare questo disco di musica da chiesa se siamo tutti una massa di miscredenti o di falsi credenti? Non andiamo più in chiesa o, se ci andiamo, non lo facciamo più con lo spirito di una volta: il nostro dirci “religiosi” è soltanto “flatus vocis”, cioè puro alitare delle labbra!
S.: Un conto è parlare della fede cieca e assoluta in una dottrina ed un altro è parlare del senso religioso che abita in ogni uomo; e comunque ho scelto delle sonate a tre e non delle sonate a solo perché l’unione delle voci nella polifonia è un simbolo chiaro dell’unione del gruppo e della gente davanti a Dio: il canto corale è più specifico dell’ambito rituale e la sonata a tre è musica strumentale modellata sull’esempio della polifonia vocale sacra, si potrebbe definire uno degli ultimi sforzi di semplificazione della polifonia (l’ultimo sarà probabilmente la fuga della sonata a solo...). Se ho scelto questa musica è perché voglio pregare: ho bisogno di pregare, e questo è il solo modo, l’ultima possibilità che mi resta. Cerco un luogo per la preghiera di noi angeli deviati, noi sconsiderati, relegati nei recessi del mondo dalla morale comune, noi esiliati, costretti a vergognarci di noi...
P.: E’ uno strano modo questo che hai di fare la musica pensando continuamente all’esistenza...
S.: Vorresti forse che facessi l’esistenza pensando sempre alla musica? L’arte è solo uno dei modi che abbiamo per frugare in noi stessi, e comunque mi sembra che per poter ben riflettere sull’opera di un altro bisogna prima avere a lungo riflettuto su sé stessi...
P.: Però quando la mente passa troppo al setaccio l’attività istintuale analizzandola minuziosamente può succedere che l’istinto perda una parte della sua carica propulsiva, mentre allo stesso tempo la volontà smorza l’efficacia del proprio potere sull’azione. Quindi accade che il saggio non sia più preda di istinti, ma la sua volontà sia divenuta meno ferma e più ricca di dubbi: questo è il prezzo dovuto al desiderio di conoscenza.
S.: Tu sai che io sono una persona che non può fare a meno di dubitare: quel dubitare che non significa evitare i problemi, ma che serve ad entrare più fortemente nei problemi, senza astrarsene al riparo delle proprie sicurezze infallibili. Dubitare è lentezza, richiede tempo, e per me ciò significa poter scegliere. Ma tu sai anche che il dubbio e la fede sono inconciliabili, perché la fede non ammette dubbi...
P.: Il problema di oggi è che solo gli intransigenti riescono ancora ad aver fede: i saggi non possono averla perché la saggezza l’ha superata. La modernità vive un drammatico passaggio fra la fede degli intransigenti e la saggezza dei tolleranti...
S.: L’intransigenza fondamentalista della Chiesa, la sua tendenza all’interpretazione letterale l’hanno da sempre indotta ad inventarsi degli eretici da bruciare o ad emarginare, quando non a spingere dall’altra parte del fossato, i loro stessi mistici. Oggi come sempre il problema riguarda il modo di credere o il modo di non credere, dove nel modo è inscritta l’accettazione o la non accettazione dell’altro, indipendentemente dalla fede o dalla mancanza di fede in Dio. Troppo spesso il limite di ogni atteggiamento religioso è di tollerare gli uomini ma non le loro idee, mentre la vera tolleranza tollera anche la possibilità che nelle idee sostenute da chi non ha fede possa esserci una parte di verità sconosciuta alle proprie idee. Ma può una religione, che è tale perché si ritiene depositaria di una verità assoluta, tollerare questo? No, perché altrimenti si auto-nega come depositaria della verità assoluta. Quindi, al di là dei bei modi e della «generosa» tolleranza delle persone, non c’è religione che possa far dialogare per davvero con l’altro da sé. Ogni morale religiosa incontra qui il suo limite. La carità che accoglie il peccatore ma non il peccato non è, come potrebbe sembrare, un segno di tolleranza perché, trasferito sul piano delle idee, questo concetto nasconde l’intolleranza di chi accoglie gli uomini senza concedere alla diversità delle loro idee alcuna possibilità di verità. Per questo le religioni hanno sempre perdonato i peccatori e bruciato gli eretici: quando la fede tratta sé stessa come verità è costretta ad assumere l’intolleranza tipica della verità che consiste nella negazione della sua negazione. Nel corso della storia abbiamo dovuto assistere a molti nefasti esempi di dove possa condurre la fede cieca nella propria verità e l’odio contro la verità altrui. E’ insensata la pretesa di dare risposte uniche, esclamative, alla totalità delle questioni umane: in nome di un’idea dell’umanità “perfetta” sono state architettate rovine, poiché il male più immane può anche scaturire dalle intenzioni - sommamente buone - di rendere felice l’umanità. A me sembra che la religione e la Chiesa dovrebbero alleviare l’angoscia degli uomini e non accrescerla, come purtroppo spesso accade...
P.: Beh, a questo proposito l’epoca di Corelli non fu certo un granchè: la Chiesa romana del XVII secolo, per schernirli, obbligava gli ebrei a correre per le vie di Roma rendendoli penosamente oggetto del pubblico dileggio...
S.: Già, ed oggi invece le cose sembrerebbero andar meglio, ma nella realtà in questi ultimi anni la Chiesa cattolica ha messo a tacere le voci di un numero assai elevato di vescovi, sacerdoti e teologi che non erano perfettamente allineati sulle posizioni ufficiali...
P.: Non vorrei che facessi come coloro che “per verborum ambages Christi doctrinam eludunt, ac Evangelicae legis nodos et robur verae virtutis solvunt”...(19)
S.: Sì, sono cosciente del fatto che non ci si deve porre davanti a Dio in un’unica prospettiva, ma con la globalità dell’essere, e comunque la musica ha da sempre rappresentato un itinerario privilegiato nel cammino verso Dio. La musica è insieme viatico e viaggio: un viaggio in cui cerchiamo a tentoni la forma delle cose eterne, un viatico che ci permette la spola fra il mondo in cui siamo vivi e mortali e l’altro dove immortali, fuori del tempo, vivono la nostra anima ed i nostri sogni. Per sua natura la musica conduce la persona nel vivo dell’esperienza dell’ineffabile, nel momento estatico che permette di attingere alla punta estrema dell’animo, quello spazio primordiale della coscienza ai confini tra luce e tenebre, tra caos ed armonia...
P.: C’è anche un altro linguaggio che riesce a compiere questo salto qualitativo: è il silenzio. Nell’ebraico biblico «deserto» si dice «midbar» e «parola» si dice «dabar»: i due termini sono significativamente associati nella comune radice consonantica «dbr» perché il deserto è sinonimo dello stare in silenzio, e soltanto il silenzio ci consente di ascoltare la parola, di parlare finalmente con noi stessi...
S.: Silenzio e musica si intrecciano, si ascoltano e si autenticano a vicenda... Ci sono adagi in queste sonate a tre in cui il discorso fra le parti si trasforma nella ricerca di un’estasi mistica, di una “trance”: il tempo è talmente lento, sospeso, che sembra non esserci più nemmeno il suono, ci avviciniamo sempre di più al silenzio... Ti ho mai detto di avere un sogno? Vorrei un giorno produrre un disco pieno di silenzio e che possa sprigionare all’ascolto un profumo d’incenso; lo sforzo finale di un musicista, il massimo sacrificio, è quello di produrre un silenzio intenso ed abitato...
P.: La tua natura saturnina ti fa vivere questa esperienza nello stesso modo di tutte le altre esperienze della vita: una serie di distacchi susseguenti e progressivi dagli altri, da sé, ed infine dalla vita stessa; così il silenzio diventa il punto d’arrivo della musica... ma ciò che chiamiamo “silenzio” è oramai oggi divenuto solo un rumore di fondo di svariate decine di decibel...
S.: Eppure sono convinto che un gesto che crea è un gesto che è capace di guardare nel buio e di ascoltare nel silenzio...
P.: Dove sei, adesso?
S.: Un’isola... ti ricordi l’isola in mezzo al lago Trasimeno? C’è un punto, un orizzonte oltre il quale anche la tristezza ed il dolore a poco a poco si placano, smorzandosi. Nel profondo dell’animo al di là di tutta l’angoscia, dell’indignazione e dell’incertezza, sento che si riforma non so quale Dio... E’ in questo luogo appartato, in questo lago interiore che abita in me la musica di Corelli. E’ un palazzo del silenzio in cui la musica giunge lenta, come in punta di piedi. L’arte di Corelli è arte che fa lago, che forma un lago mettendo insieme e calmando i rivoli sparsi del passato, placando il dolore, acquietando l’atrabile...
P.: Forse sei troppo stanco... domani torniamo in Umbria e vedrai che dopo un buon piatto di cappelletti caldi e davanti ad un vero caffè ristretto tutto ti apparirà in modo più luminoso...
S.: Mi piacerebbe che fosse come dici tu, però la pancia continua a bruciare e dentro di me ci sono ancora tante domande... Ma adesso si è fatto molto tardi, è ora di spegnere questa luce...
“Voi piangerete e gemerete, mentre il mondo si rallegrerà.
Voi vi rattristerete, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia...
Voi ora avete tristezza, ma vi vedrò di nuovo,
il vostro cuore si rallegrerà e la vostra gioia nessuno ve la potrà rapire.
In quel giorno non mi farete più alcuna domanda.”
(Vangelo secondo Giovanni, 16, 20-23)
Enrico Gatti 1997
NOTE
(1) - Giovanni Battista Rangoni, “Saggio sul gusto della musica col carattere de’ tre celebri sonatori di violino, i signori Nardini, Lolli, e Pugnani”, Livorno 1790.
(2) - Francesco Rognoni Taegio, “Selva de’ vari passaggi...”, Milano 1620.
(3) - Francesco Galeazzi, “Elementi teorico-pratici di musica con un Saggio sopra l’arte di suonare il violino”, Roma 1791.
(4) - Archivio della Corte di Neuburger Wittelsbacher K.bl.59/7.
(5) - Johann Joachim Quantz, “versuch einer Anweisung die Flöte traversiere zu spielen...”, Berlin 1752.
(6) - Lorenzo Magalotti, “Lettere sopra le terre odorose d’Europa e d’America, dette volgarmente Buccheri” [1695], I ed. postuma, Milano 1825.
(7) - Ludovico Antonio Muratori, “Riflessioni sul buon gusto nelle scienze e nelle arti”, I parte Venezia 1708, II parte Napoli 1715.
(8) - François Raguenet, “Parallèle des italiens et des françois en ce qui regarde la musique et les opéra”, Paris 1702.
(9) - Francesco Gasparini,”L’Armonico pratico al cimbalo”, Venezia 1708.
(10) - Roger North,”Memoires of Musick”, MS. British Library, London.
(11) - Sebastien De Brossard, “Dictionaire de Musique, contenant une explication Des Termes Grecs, Latins, Italiens & François les plus usitez dans la Musique... troisieme edition”, Amsterdam ca. 1708.
(12) - Adriano Banchieri,”L’organo suonarino” op.XXV, Venezia 1611.
(13) - Giovanni Fasolo,”Missa in Dominicus diebus”, in “Annuale che contiene tutto quello che deve far un organista per risponder al choro tutto l’anno” op.VIII, Venezia 1645.
(14) - Roger North, “Roger North on music: being a selection from his essays written during the years c. 1695-1728”, London 1959.
(15) - Charles De Brosses,”Lettres familières” [scritte dall’Italia nel 1739 e nel 1740], I ed. postuma, Paris 1799.
(16) - Biblioteca Angelica di Roma, MS. Arcadia 16, cc.386r - 389v.
(17) - John Hawkins,”A general History of the Science and Practice of Music”, London 1776.
(18) - Voltaire, “Poème sur le désastre de Lisbonne” [1756], I ed. postuma, Paris 1823.
(19) - Gian Vincenzo Gravina,”Hydra mystica sive de corrupta morali doctrina dialogus”, Napoli 1691.