Testo scritto nel 2011 per il CD omonimo pubblicato da Glossa nel 2013
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Alla Ven.da et Rev.ma Sig.ra mia Sing.ma Suor Marianna Teresa
Monastero di Sant'Orsola, Mantova
Mia carissima sorella, non so con quale ardire, e non certo senza imbarazzo, io possa scrivervi finalmente dopo una vita spesa in lontananza a viaggiar per le contrade tutte d’Europa con la sola compagnia del mio violino, a voi che forse oramai mi credevate morto, non avendo mai avuto notizia di me, o forse ancora mi pensavate in vita, mai avendo ricevuto avviso di mia morte.
La caducità del genere umano, per decreto divino, non possiede cosa più certa in questo mondo della morte, e più incerta dell’ora di quella. Così, volendo prevenire il colpo fatale della nemica comune, vi scrivo infine, prima che troppo tardi si faccia.
Tanto andai peregrino in molte illustri città del mondo musicale, et hora che per volere della sorte mi ritrovo a un dipresso vicino alla mia città natale di Cremona, ebbene or non riesco a trovare il coraggio necessario per far ritorno alla mia patria, temendo di vedersi tramutare quel ritorno piuttosto nella dolorosa amarezza di ripercorrer da vecchio quei medesimi passi fatti allorché ero giovane, e di scoprirmi straniero proprio in quel luogo dove di meno esserlo dovrei.
Oramai io, in questa mia tarda stagione, avendo consumato la vita goccia a goccia, non solo non riesco più a montar a cavallo, ma a malapena riesco a camminare: mi sembra infatti che mi stiano quasi nascendo radici ne’ piedi, ovvero è il mio cuore stanco che si spinge fino a cercar la terra per riposarsi e trovar pace.
Mia gentile sorella, a questa veneranda età, dopo aver cercato in largo e in lungo, io ho hormai da tempo compreso che ciascheduno insegue per la propria strada la gratia, et quale cosa essa sia, attraverso mille consigli & mille possibili cammini. Se sia una semplice preghiera che sgorga sincera dall’anima, se un libro stampato pieno di sapientia, se un ben delineato paesaggio che ritragga un soldato al ritorno dalla guerra, se un sermone disposto ad arte per innalzare il cuore degli uomini al cielo, se un'anima che si leva dalla nuda pietra scolpita con perizia, se infine una concinnitas di suoni musici eloquenti più della parola stessa, e che ben più di quella facciano vibrar il cuore dei mortali: e forse anche quello di Dio?
Quella vibrazione mi prese in verità nel fiore dei miei anni, allorquando la vita mi scosse fra le sue possenti dita, et io volli imparare a illustrar con misuratissime note le mie dismisurate sventure. Così, per la disperatione che sentivo dentro, fui mosso da una forza più grande di me che mi guidava sù per il manico di un violino, et imparai ad esprimer la mia rabbia, la mia dolcezza et i sensi tutti dell’anima grazie a un minuscolo istrumento fatto di quattro corde e pochi crini di cavallo ma che, come un musico uccello volatore, con pieghevolissima voce i confini prescritti alle sue penne compensa.
Dalla musica, mia maestra, imparai il controllo degli affetti e delle passioni; imparai anche ciò ch’è maggiormente difficile: il silenzio, & l’arte d’ascoltare. Una delle maggiori lezioni nella mia vita fu infatti quando principiai a comprendere fino a che tratto fosse bene il parlare, e quando poi meglio sarebbe stato invece il sapersi tacere. La retorica in musica m’apprese che la vera eloquenza consiste nel dire il necessario e soltanto il necessario, essendo che l'eloquenza è un preciso ritratto del pensiero; per ciò coloro i quali dopo aver dipinto aggiungono ancora qualcosa, fanno un quadro invece di un ritratto. Se pure alle fiate non pare, discretione di parola conta più dell'eloquenza: le parole (e, similmente per noi musici, le note) impiegate esser dovriano come mezzo e non qual fine, e dunque è essenziale il discernimento nell’arte, imperocché il bello consiste nella proporzione, e la proporzione non si accoppia con le superfluità.
Benché di nascita & condizione agiata, non ho disdegnato di guadagnarmi la vita affidando la mia voce a un’istrumento che ancora cent’anni fa era espressione delle genti basse. Reputo che un uomo debba esser capace di guadagnarsi il pane in qualsiasi modo et in qualsiasi loco, ma se per caso questo pane non gli nutre anche l'anima, allora si soddisfa solo il corpo, e l'anima soffre...
Così elesse e visse, ad esempio, prima che se lo portasse via la furia del contagio, l’illustre Giobatta Fontana, fra i migliori ottimo, che lavorò per la chiesa et sonando le sue squisite sinfonie durante i Vespri e le sacre funzioni si procurò il pane sia per il corpo che per l'anima, ricavando i temi di molte sue famose compositioni dai canti gregoriani che nella chiesa udiva cantare. Et similmente ancor l’illustre signor Biagio Marini, violinista & cantore, nel quale mirabilmente si vede rappresentato l'antico detto Franchi canunt, Hispani ululant, Germani boant, Itali plorant.
Le loro sonate, e tutte quelle nostre sonate italiane per il Violino solo con il basso continuo (o con il basso accompagnato se piace) le ho trovate particolarmente gustose da farsi insieme all’organo concertato: et in vero, grazie a quelle leghe di metalli così felicemente ritrovate, i nostri organi italiani dal caldo suono possiedono quel color di voce particolarmente adatto a fondersi tutt’uno con il canto e con quegli strumenti che nell’arte d’imitar il canto stesso vieppiù eccellono, de’ quali il violino è da considerarsi al pari d’un re, al nobile cornetto avendo tolto lo scettro.
Una cosa singolare mi accade in questi dì, ed è che essendo il reverendo Don Marco Uccellini afflitto dai dolori colici, a me lasciò l’illustre compito di apprender il violino alla duchessa Isabella, già di molto istruita in quest’arte.
Il reverendo Don Marco Uccellini, nelle cui vene scorre il dolce sangue di Romagna, è musico dei Duchi di questa nobilissima città & persona meritevole d’ogni bene, sì per le sue virtù come per esser prete d’ottima vita, ha un carattere mite e riservato, è morigerata persona, non come certi altri preti che nemmeno si sognan di dir messa e anzi si intrattengono in lascivi congressi, ma lasciamo andare.
Forse per la singolarità del suo nome e sicuramente per l'unicità della melodia delle di lui compositioni, meglio e più felicemente di tanta altra musica i suoi canti salgono al cielo con naturale facilità, così come sincero & naturale è il canto di quegli augelletti da cui Don Marco il suo nome deriva. È una musica che, a sentirla, perfino quei poveri condannati a morte, che chiusi si ritrovan nelle segrete prigioni, nemmeno chiedon più la confessione, e pur tuttavia muoiono assolti.
Il mio primo incontro con detto Don Marco avvenne in occasione del viaggio di S.M. la regina di Suetia. Come di certo sapete, numerose tappe distinsero il viaggio della regina Cristina, nuova paladina della chiesa cattolica romana, verso meridione: dopo Ferrara, nel novembre dell’anno 1655 essa entrò trionfalmente in Bologna, Imola, Faenza, Forlì, Pesaro, Ancona, Loreto, Foligno, Assisi e Caprarola, facendo infine sontuosamente il suo ingresso in Roma acclamata in magna pompa da folla esultante. Ma durante questo suo cammino molte furono le accoglienze festose che ricevette, e che specialmente il cardinal Ottavio Acquaviva, legato di Romagna che accompagnava la regina, organizzò, chiedendo inoltre ai grandi principi di lasciar licentia ai propri musici più virtuosi di suonar per quella sovrana, tanto amante delle arti. Fu così che due fra i più esimii suonatori di violino, il reverendo Uccellini et il venerando Aldebrando Subissati da Fossombrone (rientrato in tempo dalla Polonia dove si era di molto illustrato) furono richiesti dei propri servigi in presenza della regina, et io ebbi la fortuna di suonare con loro, insieme a Don Francesco Pagini, Don Tommaso Zanini, Giovanni Brizzi ed il chiaro Signor Luca Salvadori castrato che anche voi ricorderete.
Novamente ebbi la ventura di concertare insieme a Don Marco a Modena nel 1660, con occasione della nascita di S.A.S. il Duca Francesco II d’Este, mirabilmente festeggiatasi con Il trionfo della virtù, una piacevolissima festa a cavallo messa in musica dal Signor Benedetto Ferrari della Tiorba.
Ma tornando a noi, cara sorella, fortunatamente stabilissimi, e non solo soavi, sono i diletti della memoria & i piaceri della rimembranza. La lontananza da qualcuno che come voi è stato fra le persone più care della mia giovinezza, ebbene questa lunga lontananza mi permette forse ora finalmente di confessarvi un segreto che solo adesso mi sembra di poter cominciare a scorgere e penetrare con un qualche barlume di lucidità.
Per seguire la mia via son stato sforzato à lasciar tutto il resto: i continui viaggi, l’insicurezza del fato, mi hanno impedito di aver famiglia e di assicurarmi una discendenza, così come alla più parte de’ mortali viene invece concesso. Per amor della musica, di un’altra gioia mi privai: quella di sentir risuonare in casa mia la musica fatta dalle voci de’ bambini intenti al giuoco.
Ma debbo dirvi di aver scoperto una cosa assai importante, e che da giovane affatto non potevo sospettare. E ciò è, che la cosa più bella, quando si fa codesto mestiere, è di aver la facoltà di obliare il mondo, esattamente come può fare un bambino, sentirsi in tal mondo felice & spensierato, ricrear le regole che reggono la madre terra.
Si può trascorrer tutta la giornata a giocare spensieratamente et allo stesso tempo prender assai sul serio la nostra humana esistenza, ma con quella tal sorta di ingenuità che solo nei bambini si può osservare.
Ebbene, io vorrei che chi mi ascolta mentre suono dicesse in cuor suo: «Questa emozione che ora scopro è anche la mia emozione, ma forse io non ho ancora avuto il coraggio di abbandonarmi tanto sino al punto d’esser così infantile».
I bambini, infatti, prendon assai sul serio tutto quel che noi chiamiam «giuoco» et al riguardo molto profonde son le loro esigentie d’organizzazione & al contempo le capacità d’improvvisatione et variatione entro una struttura ben conosciuta o più volte replicata, come ciò che per noi musici è un basso ostinato.
Vi ricordate, sorella, quando, convinti della finzione come della nostra più grande verità, giuocando ci dicevamo «Facciamo che io ero…»?
Ecco, allora, che si spalancavano davanti a noi due, piccoli, enormi spazii d’immaginazione, che era però vita: et era la nostra vita.
In fondo anche quest’arte con cui ho vissuto e viaggiato pellegrino nel mondo è giuoco, ma un giuoco che va preso veramente sul serio e che non dovrebbe considerarsi un mero divertimento futile & effimero, un sottofondo da desinare che convenga per quando si conzan le tavole. E in cui, sempre «per giuoco» possiamo fingere di esser talora una cosa & talora un'altra. Ad esempio, io ho una bizzarria, un capriccio: immagino di essere un pittore e di comporre quadri con le note, in cui mi sembra proprio di spandere colori non su di una tela, ma bensì per aria... La vedete la sontuosa eloquenza dei colori del Cavalier Calabrese, l’azzurro et il rosso del Guercino che volteggian nell'aria con la musica? E Caravaggio, poi, è celeberrimo per quei suoi drammatici contrasti che oppongon luce et ombra, ma non è di certo pittore in bianco e nero: la luce & il modo in cui essa s'infrange e si spalma su persone e oggetti, suo soggetto d'elezione, vive appunto di tutti i colori di cui il mondo consiste.
Chi sa se questa musica che si brucia in un attimo e che s’invola per l’aria può vincer la caducità del tempo e la voracità dell’oblio, e se quei semi che ci giungon dal passato ancor oggi possono dar vita a piante fruttifere: perché di tutte l’arti sublimi, come degli alberi, ci dilettan le cime, non le radici; ma quelle senza queste non possono conseguirsi.
Et infatti, pur improvisando di sovente, nulla in quest’arte dev’esser lasciato al caso o al mutevole capriccio: il pittore non può infatti esimersi dal concepire una struttura ben regolata e, sì come che l’improvvisatione non si improvvisa, sempre deve rammentarsi di pareggiar etiamdio la Natura con l’Ingegno, se vuol che l’affettuoso non si muti in affettato. Così, dopo aver mandato a mente tutti gli stromenti della rettorica in musica, è bene dimenticarli per breve tratto allorché si vuol esprimer degli affetti particolari, e pur tuttavia quella porta che ci fa trascorrer dal semplice suonare all’Arte vuol aver discernimento: quindi, ove avessi da combatter con l’ingegno, sempre fa di mestiero aver l’arme sfoderate.
Et anzi nella bellezza l’Arte può talvolta più della Natura, tal che l’Ingegno, quand’esso è sommamente pretioso nella finezza, non solamente possa sanar le piaghe della vita, ma saldarle et glorificarle.
Sorella cara, vorrei recarvi diletto, quello stesso diletto che io ne ho tratto, copiandovi qui un brano del marchese Brignole Sale di buona memoria, che fu nuovamente impresso in Venetia hor sono pochi mesi, e nel quale potrete assaporare tutto il senso di quell’arte effimera con cui io, nel male o nel bene, ho perso (o guadagnato) la vita mia, quasi per intero lontano da voi spesa:
Titone sgridava nell’oriente le brune ancelle (dico l’ore notturne) perché così per tempo avesser conceduto l’uscire all’alba, quando, desta la reina da un usignuolo che in un boschetto contiguo alla sua stanza facea pompa di melodia, sorse, e seco fece sorger insieme gli altri et invitandoli a ravvivare con sì bel concento gli spiriti, forse ancor sonnacchiosi, trasferitisi tutti pianamente sotto la fronzuta scena del recitante, dierono ampla licenza di felicitarsi alle orecchie. L’udito tentava pur di persuadere lo sguardo, che ivi fosse un intiero stuolo di augelli; e lo sguardo, per quanto s’aguzzasse tra quelle frondi, altro non discerneva che di piume un minutissimo globo. Sembravano ripugnanze che un uccello atto ad esser balzato ad ogni più leggiero soffio fievole di aura, accogliesse in petto tutte l’aure più poderose, in tante maniere che a suo talento con dolcezza sì grande le tiranneggiasse, mentre ch’ora per diritta carriera audace sospingeva la voce; ora per girevoli calli ubbidiente la ritorceva; ora da gli abissi la scoccava a saettare le stelle; ora dal cielo la facea piombare fino al profondo; ora adulatore la vezzeggiava; ora innamorato l’illanguidiva; ora invidioso la interrompeva; ora temerario la sollevava; ora umile la deprimeva; or ingannatore la prometteva. Variando in un momento mille consigli, interrompeva il passaggio col trillo, risorgeva in cadenza con la tirata, troncava col sospiro l’ordito gruppo. Quando l’aspettavi maggiormente sonoro, ad un tratto egli intorbidava gli accenti; quando lo credevi maggiormente ambizioso di applausi, ad un tratto ei taceva; quando lo scoprivi più infervorato, cominciava tra se stesso a mormorar bassamente. Così nelle sole angustie di quel picciolissimo petto, officina naturale di ogni stromento, risonava dilettosamente l’idea, da cui l’arte ha apparati gli organi, i cembali, i pifferi, i liuti, le cetere.
E qui termino, divotamente vi riverisco, et alle vostre efficacissime orationi mi raccomando.
Parma, li 13 Xmbre 1665
Vostro divotissimo et obbligatissimo servitore & fratello
Giulio Cavalcabò
Scriveva nel 1621 Donna Giulia Felice d’Este a suo padre, il Cardinale Alessandro d’Este:
Hò sentito à sonare il Cavalcabò il quale à me pare che sona molto bene, sò che Vostra Signoria Illustrissima la [sic] sentito per quanto egli mi à detto e posso credere che non le habbi spiaciuto, si tratene in Modena 7 o 8 giorni e in questo mentre io vo’ migliorare un poco di più facendomi mostrare il stile e la maniera, et hò di già il primo giorno imparato un gropo doppio sonando con due corde che è però difficilissimo à farlo, à lodato assai il mio violino, che dice esser venuto dalle miglior mane di Cremona. [1]
Il personaggio Cavalcabò, violinista del XVII secolo, è veramente esistito dunque, e non è frutto di pura invenzione. Mi sono però concesso la licenza di spostare in avanti di un qualche decennio le sue vicende - immaginarie, anche se in buona parte verosimili - ambientandole non all’epoca di Giulia Felice d’Este bensì a quella di un’altra illustre nobile estense, Isabella, che andò sposa al Duca Ranuccio II Farnese, nel periodo degli anni ’60 del seicento in cui la cappella musicale modenese era stata sciolta dalla reggente Laura Martinozzi e Don Marco Uccellini aveva di conseguenza trovato impiego a Parma presso i Farnese, tramite i buoni uffici della stessa Isabella d’Este, naturalmente.
In una lettera del 1654 Uccellini si rivolgeva al Duca Francesco I d’Este (in villeggiatura estiva presso il Palazzo Ducale di Sassuolo) informandolo sul proprio stato di salute:
Mi ritrovo a Modena dove son stato travagliato dalli dolori colici et il Signor Medico Scagliola mi a [sic] dato una medicina con altri bochoni et uncione dove per gracia di Dio sto assai bene, et esendo divolgata voce per la città che io erò moribondo e ancor giunta detta voce a Fortuno, dove che subito l’amico e [sic] venuto a vedermi e mi a ritrovato star bene dove che e pieno di alegrezza. […]
Mi a fatto portar la canavetta dove io buona licenza di Vostra Signoria Illustrissima la farò riempir del mio vino e me lo portaro meco a Sassolo per non far tante mutanze di vino per il mio stomacho. [2]
Quando Don Marco Uccellini parla del suo vino intende proprio quello che veniva prodotto nei suoi possedimenti di famiglia in Romagna, essendo colà proprietario di “colli, terreni, ville, fondi…” come si ricava dal testamento [3]. È simpatico riportare quanto descritto in una cronaca del 1678, che narra il viaggio di ritorno della corte Farnese dal pellegrinaggio effettuato presso il santuario di Loreto :
Partiti dà Furli [Forlì] à hor 11 è passato dà FurliPopollo [Forlimpopoli], il Signor Don Marco Uchiellini Mastro di Capella in Parma de Serenissimi Pattroni à fermo le Caroze con li Serenissimi Pattroni nel mezo della strada, à lincontro di sua casa con molte Persone, con zanbelle [ciambelle], castagne, rebiolli [ravioli], torte, è vini preciosi et sallami, è cartelli, in lode de Serenissimi Pattroni. [4]
L’episodio qui narrato porta la data del 14 ottobre 1678, quando il reverendo Uccellini si avvicinava ormai alla veneranda età di ottant’anni: morirà infatti meno di due anni dopo.
“Cavalier Calabrese” è l’appellativo con cui era meglio conosciuto all’epoca il pittore Mattia Preti (1613-1699), calabrese di nascita.
Il brano di Anton Giulio Brignole Sale (1605-1662) è tratto dal prologo all’ottava giornata de Le instabilità dell’ingegno, Niccolò Pezzana, Venezia 1664, pp. 269-270. Si tratta della quinta edizione conosciuta di quest’opera, anche se la prima edizione a noi pervenuta, pubblicata a Bologna da Giacomo Monti nel 1637, venne presentata quale “nuova impressione”. A questa seguirono successive ristampe nel 1641 (Venezia, Sarzina), 1645 (Bologna, Monti), 1652 (Venezia, Pavoni-Giunta), quindi l’edizione veneziana di Pezzana risulta essere l’ultima ristampa, peraltro postuma.
L’antichissima e nobile famiglia Cavalcabò, che oltre a musicisti ha annoverato fra i suoi membri esperti di scherma, condottieri, scrittori ed ambasciatori, esiste a tutt’oggi nella città di Cremona.
Enrico Gatti
Santarcangelo di Romagna, settembre 2011
[1] Modena, Archivio di Stato, Cancelleria Ducale, Carteggio fra Principi Estensi (Casa e Stato), n° 205: Lettere di Suor Giulia Felice d’Este nat. del Card. Alessandro allo stesso, 1621. La lettera è datata “di Modena li 29 maggio 1621” ed è stata scritta dal convento di S. Geminiano in Modena, attualmente sede della Facoltà di Giurisprudenza.
[2] Modena, Archivio di Stato, Serie particolari, 1416: “Uccellini”, n°13, Folio 22-23. La lettera, autografa, è datata “di Modena li 4 agosto 1654”.
[3] Forlì, Archivio di Stato, Fondo notarile di Forlimpopoli, Notaio Benedetto Bandi, vol. 221, anno 1680, fogli 76v-80r. Il testamento di Uccellini è datato Forlimpopoli, 9 Settembre 1680.
[4] Napoli, Biblioteca Nazionale, Ms. X.E. 27, 30, 35, 36, 37, 38: Estratto dai diari di Orazio Bevilacqua, Parma, Colorno ecc… 1665-1680.