Intervista realizzata a Milano in occasione della pubblicazione della registrazione delle Sonate op.V di A. Corelli
Durante un freddo pomeriggio autunnale incontro Enrico Gatti in un famoso negozio del centro di Milano. Siamo lì entrambi per presentare al pubblico il suo ultimo sforzo, le Sonate op.V di Corelli, che il maestro ha inciso con Gaetano Nasillo al violoncello e Guido Morini al clavicembalo.
Per l’intervista scegliamo di appartarci in un bar della vicina piazza Sant’Alessandro e Gatti riconosce l’omonima chiesa nella quale anni prima aveva suonato con Ton Koopman. Dopo aver sorseggiato delle bevande calde, entriamo nel vivo della nostra chiacchierata.
- Maestro, come è nata in lei la passione per il violino barocco?
Sono nato a Perugia, una città che possiede delle vestigia antiche e preziose: forse per questo motivo ho subìto il fascino del passato. In realtà, una delle prime persone che mi abbia avvicinato alla ricerca di uno stile appropriato nella musica barocca è stato Luigi Rovighi, "concertino dei secondi violini" al Comunale di Bologna e insegnante di Conservatorio nell’omonima città. In Italia è stato uno dei primi violinisti ad occuparsi di musica barocca realizzando, tra le altre cose, un famoso articolo sulla rivista Italiana di musicologia.
Come tutti sono partito suonando il violino moderno, addirittura c’è stato un periodo in cui ho pure impiegato il violino amplificato, ma poi ho capito di essere interessato più al "colore" del suono piuttosto che alla sua intensità. Certo, a volte mi manca un poco il repertorio romantico, il non poter più suonare Brahms, ma bisogna pur fare delle scelte nella vita! In Italia vi era bisogno di cercare nuove strade, mentre ci sono tanti bravi esecutori di quella fetta di repertorio più corrente, quei 150 anni di musica che ascoltiamo così frequentemente nelle sale di concerto di oggi…
- Ha quindi avuto già dagli studi di Conservatorio insegnanti legati alla passione per il barocco?
Fino ad un certo punto. Mi sono formato, in effetti, con un allievo della famosa concertista Gioconda De Vito, Arnaldo Apostoli che -- suonando con I Musici -- mi ha trasmesso l’amore per il repertorio del Settecento strumentale italiano. Un'altra figura importante è stata quella di Alfredo Fiorentini, allievo di André Gertler (Budapest, 1907 – Budapest, 1998). Il violinista ungherese era stato buon amico di Bartok e ne aveva trascritto alcuni brani per violino.
- Figure, quindi, molto lontane dalla filologia musicale. La sua formazione specialistica è avvenuta negli anni successivi al diploma, con la Banchini e Kuijken.
La formazione con Chiara Banchini è stata soprattutto un’educazione tecnica di ottimo livello. Con lei ho anche suonato molto: Boccherini, Tartini e tanta altra musica, soprattutto italiana. Mentre con Kuijken -- incontrato quando avevo ormai una mia precisa personalità artistica -- è stato soprattutto un confronto con un personaggio di straordinaria cultura e profonda umanità. Sono stato tra i suoi primi allievi italiani e con lui abbiamo spaziato dal ‘600 al repertorio francese e fino a Bach. Mi ha insegnato molto, anche se da un maestro non si va allo scopo di imitarlo pedissequamente, bensì per apprendere una disciplina e per confrontarsi su tematiche di ampio respiro. Ancora oggi quando lo rincontro di quest’uomo mi colpisce la profonda cultura e la straordinaria sensibilità.
Non credo molto a chi costruisce le proprie competenze da autodidatta. Lo studio è soprattutto confronto e ancora oggi non posso dimenticare le grandi conoscenze e le emozioni trasmessemi da Jaap Schröder, né la profonda sensibilità interpretativa di Lucy Van Dael.
- Veniamo quindi a Corelli. Come nasce in lei la passione per questo autore? Come mai ha aspettato tanto tempo prima di inciderlo?
Fin da ragazzino ho nutrito un amore speciale per questo autore. L’occasione è arrivata nel 2003, per l’anniversario dei 350 anni dalla nascita con l’incisione dell’Opera Quinta realizzata dopo aver fatto sedimentare le "diminuzioni" e averle provate in svariate occasioni concertistiche.
Qualche anno prima avevo già fatto un lavoro che si potrebbe quasi definire "preparatorio" occupandomi delle Sonate da Chiesa Opera Terza e di alcune Sonate postume (si tratta del doppio CD pubblicato da ARCANA e registrato con l’Ensemble Aurora).
- Se mi permette, al fine di aiutare i nostri lettori nella comprensione del suo immane lavoro di ricostruzione filologica, vorrei spiegare che cosa si intende per "diminuzione". È una pratica molto utilizzata nella musica barocca che consiste nell’ornare una melodia vocale o strumentale dei movimenti lenti con fioriture di vario tipo (note di passaggio, note di volta, frammenti di scale, gruppetti, trilli). Questa poteva essere improvvisata, come in genere avveniva per il repertorio italiano, oppure esplicitata dallo stesso compositore che scriveva di suo pugno le diminuzioni. Uno degli esempi più tipici, che forse tutti conoscono, è l’ "Adagio" dalla Prima sonata per violino solo BWV1001 di J.S.Bach il quale viene scritto direttamente con le diminuzioni della melodia. Questa pratica -- che nasce, peraltro, già prima del Seicento -- si ritroverà anche nel repertorio successivo sino alle abbondanti fioriture nella musica di Chopin.
Come ha impostato il lavoro sulle "diminuzioni" corelliane?
La mia scelta è stata quella di ambientare la nostra interpretazione all’epoca in cui la musica fu scritta. Così, dopo aver analizzato per lungo tempo la tradizione diminutiva italiana (posseggo copia di tutti i trattati diminutivi italiani del XVII secolo e nel corso dei miei anni di formazione li ho studiati) e aver analizzato lo stile compositivo di Corelli, ho affrontato -- proprio per calarmi nell’epoca di un uomo nato nel 1653 e morto nel 1713 -- un’analisi comparativa con quanto scritto dagli autori coevi. In particolare ho considerato le opere di J.S.Bach precedenti il 1720 e quelle di due musicisti inglesi -- Mattew Dubourg (Londra, 1703 – Londra, 1767) e William Babell (Londra, 1690 circa – Canonbury, Londra 1723) – curiosamente assai vicini stilisticamente alla tradizione diminutiva corelliana.
Ho iniziato, comunque, dalle diminuzioni attribuite a Corelli, utilizzando quelle dell’edizione del 1710, pubblicata da Estienne Roger.
- Mi scusi, ma è lei stesso ad affermare nello splendido booklet allegato a questa incisione che la paternità di queste diminuzioni non sia sicura. Perché le ha comunque utilizzate?
La questione sulla paternità di questa edizione è complessa e di difficile soluzione, ma il punto è un altro. Emerge, in effetti, come lo stile ornamentale di questa edizione contenga moduli corelliani riscontrabili nella scrittura originale dell’Op.V e, comunque si voglia considerare questa edizione, le diminuzioni che essa contiene -- peraltro limitate ai movimenti lenti delle prime sei sonate -- sono le più antiche e le più vicine allo stile del compositore. A mio avviso esse sono riconducibili a Corelli stesso, anche se immagino che nelle proprie esecuzioni egli potesse improvisarne o suonarne anche delle altre, magari perfino più esuberanti. E sempre nello spirito di riproporre delle fioriture molto vicine allo stile corelliano, ho inserito nel primo movimento della Sonata n°5 le diminuzioni molto interessanti di Mattew Dubourg.
- Come si è regolato, invece, per le diminuzioni della seconda parte delle Sonate, visto che di attribuite al compositore non ne esistono?
Le ho scritte io stesso grazie all’esperienza fatta in questi anni sul repertorio dell’epoca e, come già affermato in precedenza, grazie ad un’analisi comparativa dello stile corelliano, con quello di Bach e dei due violinisti inglesi, Dubourg e Babell. Ho scritto di mio pugno le mie proprie interpretazioni dell’Opera Quinta, cercando di mantenermi il più vicino possibile all’estetica corelliana. Solo in qualche caso ho preso ispirazione dalle idee di Dubourg e Babell perché le loro forme asimmetriche, a volte estroverse ed imprevedibili possono adattarsi bene al modo con cui Corelli concepiva la diminuzione. Mai, però -- tranne che nell’Adagio della Sonata n°5 -- ho riproposto un’esatta riproduzione delle diminuzioni di Dubourg perché non tutte possiedono lo stesso livello compositivo (bisogna considerare, in effetti, che quando il violinista inglese le elaborò era solo ventenne).
- Deduco perciò, che non abbia preso in considerazione le edizioni con le diminuzioni di due importanti violinisti come Geminiani e Tartini perché troppo lontane dallo stile corelliano?
Certo. Avrei potuto utilizzare le numerose fonti manoscritte o a stampa del XVIII e, addirittura, del XIX secolo, ma l’operazione avrebbe mostrato l’evidente scarto stilistico. Oltre alla elegantissima elaborazione della Sonata n°9 curata da Francesco Geminiani, uno dei più celebri allievi di Corelli, nella quale fa capolino lo stile pre-classico, ci sarebbe quella molto appariscente del violinista svedese Johan Helmich Roman (Stoccolma, 1694 – Kalmar, 1758) che è ricca di un virtuosismo molto estroverso, ben lontano dalla sensibilità corelliana.
- Come considera la diminuzione? In fondo è uno spazio creativo-compositivo che voi interpreti vi siete ripresi e che avvicina molto questo repertorio a quello della musica jazz.
E’ una dimensione molto interessante che aiuta l’esecutore a crearsi nuovi spazi e ad avere più competenze: mi sento musicista, ricercatore e musicologo. Prima di portare alla luce un nuovo repertorio ho bisogno di molto tempo per studiare le fonti, scrivere le mie diminuzioni e poi sperimentare il mio lavoro durante i concerti. Selezionando e modificando, arrivo a definire un percorso che poi si "cristallizza" nell’incisione discografica.
Bisogna, peraltro, modificare il modo di concepire questa musica soprattutto per quanto concerne le scelte agogiche. I tempi lenti devono essere tali, in modo che le diminuzioni possano godere di uno spazio che consenta loro di essere ben espresse. In fondo Corelli, per l’ammissione alla propria classe di violino, chiedeva "semplicemente" ai suoi allievi di essere capaci di tirare l’arco, il più lentamente possibile.
- Parliamo un po’ della scelta del violino e dei suoi accessori. Quali requisiti deve possedere uno strumento per poter affrontare il repertorio barocco?
Innanzi tutto, il violino va aperto perché bisogna cambiare la catena, che deve essere più corta e sottile, così come l’anima. Il ponticello è più basso, il manico è più corto e grosso in modo tale che lo spazio tra la mano e le dita arcuate si possa riempire meglio: così facendo il pollice ha una migliore funzione di sostegno-perno. Con un arco barocco adeguato, inoltre, è lo strumento stesso a suggerirti la prassi esecutiva antica. Naturalmente, poi, ci sono le corde in budello, che completano il quadro timbrico totalmente differente da quello contemporaneo; e comunque -- occorre ricordare -- il senso estetico del suono va ricostruito dentro di noi con un paziente e lento lavoro di scavo e ricerca. Questo lavoro è inscindibile dall’imitazione della voce umana: ovviamente una voce umana che canta secondo il gusto degli anni in cui è nata l’opera, senz’altro un gusto molto lontano dal modo di cantare più diffuso al giorno d’oggi.
- Tra le sue poliedriche attività scorgo anche quella di ricercatore, di direttore d’orchestra e di insegnante.
Sì, faccio parte della Commissione scientifica che cura l’edizione nazionale dell’Opera omnia di Alessandro Stradella, istituita dal Ministero dei Beni Culturali. E proprio nel repertorio vocale-strumentale di Alessandro Stradella e di Alessandro Scarlatti mi sono cimentato come direttore, in primo luogo con l’ensemble Aurora da me fondato nel 1986.
L’insegnamento, invece, è una grande passione perché voglio trasmettere ai giovani l’amore per il repertorio barocco. Ripensando al passato, mi ricordo dei pionierismi affrontati anche con una certa incoscienza. La musica barocca veniva considerata un "optional" per maniaci, oppure una soluzione di ripiego per chi non era riuscito con la carriera tradizionale.
Oggi, invece, dopo aver insegnato per anni alla Civica di Milano, a Fiesole e in diversi Conservatori europei, sono approdato al Conservatorio Reale dell’Aja, dove ho avuto la possibilità di vedere riconosciuto tutto il lavoro fatto durante questi anni. Per gli strumentisti italiani -- che peraltro mi raggiungono anche in Olanda -- c’è la possibilità di seguire i miei corsi al Conservatorio di Novara, dove sono attivi i nuovi trienni e bienni sperimentali, con laurea di primo e secondo livello in violino barocco.
- Quali le prospettive per lo sviluppo del repertorio barocco nelle sale da concerto?
Sono un po’ triste perché le grosse istituzioni, anche quelle straniere, non si muovono come potrebbero. Le città europeee che stanno facendo di più sono Londra e Parigi, ma si tratta di esperienze marginali nel panorama internazionale. In Italia questo nostro grande repertorio – ancora in gran parte inesplorato – rimane in realtà sottostimato, e ciò solamente perché non v’è stata una educazione alla comprensione del vocabolario espressivo del ‘600 e ‘700. Tutti quanti corrono ad ammirare le mostre di pittura, ognuno oggi riesce ad apprezzare tutto quello che è immediato dal punto di vista visuale, ma manchiamo di un’educazione dell’orecchio, educazione all’ascolto ed al raffinamento della sua sensibilità. Siamo più che altro abituati ad ascoltare certe cose che ci danno un piacere immediato: il piacere di riconoscere una sensazione, ma rimaniamo troppo legati a quel desiderare di riconoscere e non siamo stati abituati al piacere di scoprire cosa c’è dietro un territorio poco conosciuto, apparentemente incomprensibile o limitato, perciò si assiste quasi sempre alla riproposizione degli stessi autori o brani, mentre diventa sempre più difficile proporre pagine alternative, seppure di grande valore. Le esecuzioni "standard" di musica barocca dell’ oggi si adeguano in genere a questa situazione, fornendo al pubblico uno stile facile, veloce e scattante per fare presa sull’ascoltatore pigro, esattamente come farebbe un cattivo programma televisivo.
Gli "specialisti" della prassi esecutiva barocca rimangono un manipolo di esecutori soggetti, tra l’altro, anche ai diktat delle case discografiche. Non c’è editore che, dopo averti fatto incidere quello che volevi, non ti proponga le immancabili "Quattro Stagioni", anche perché si pensa che ormai le nostre conoscenze sulla musica barocca siano arrivate al capolinea: niente di più falso, visto che resta ancora moltissimo da indagare, anche se sembra che le giovani generazioni siano assai più attratte dagli aspetti materiali del lavoro che dalla passione per la ricerca. Da questa situazione si potrà uscire solamente con più cultura, con dei direttori artistici che capiscano più di arte e strizzino meno l’occhio alle contaminazioni che fanno trend ma non stimolano conoscenza profonda e coscienza stilistica. Soprattutto, direi, con una scuola migliore che faccia conoscere a tutti la reale bellezza ed importanza del nostro patrimonio musicale, la cui parte più cospicua è senz’altro costituita dalla musica del XVII e XVIII secolo (non solamente dai ben noti Verdi e Puccini). Si tratta dei nostri beni culturali, e dovremmo occuparcene con maggiore cura.