Benvenuti nel sito di Enrico Gatti e dell’Ensemble Aurora.
Questo sito è recente, ma la nostra storia viene da lontano, dall’alba della musica antica interpretata in Italia con strumenti d’epoca.
Enrico Gatti è stato il primo violinista italiano a consacrarsi interamente allo studio e all’interpretazione del repertorio che va dalla fine del XVI all’inizio del XIX secolo con gli strumenti originali, il primo fra gli italiani a svolgere approfonditi studi all’estero e ad essere invitato a far parte dei più prestigiosi complessi olandesi, belgi, francesi ed inglesi prima di fondare, nel 1986, l’ Ensemble Aurora. Ma le esperienze concertistiche da cui aveva mosso i primi passi si erano svolte a Roma e in Italia già alla fine degli anni ’70, prima con “il Dolcimelo” e poi con La Stravaganza, in cui figuravano dei giovanissimi Paolo Pandolfo e Rinaldo Alessandrini.
In quegli anni, il rinnovamento musicale che alcuni giovani perseguivano – sulla scorta culturale ed emotiva dei grandi mutamenti sociali occorsi tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 – portava ad una nuova “ecologia del suono”, liberato da quei comuni denominatori che appesantivano in uguale misura tutta quanta la musica composta prima del ‘900.
Per noi, negli anni ’70, si trattava di ricostruire un suono che fosse “ripulito” da tutte le scorie anacronistiche frutto dell’estetica novecentesca; di abbandonare quella mentalità da efficiente operaio dello strumento che i conservatori tendevano a creare; di recuperare una identità di musicista a tutto tondo, un musicista capace di intendere le forme antiche e le loro strutture retoriche, di padroneggiare l’armonia e i differenti linguaggi musicali al punto di poter improvvisare nello stile dei compositori eseguiti.
Ci sembrava – e ci sembra tuttora – che il valore di modernità di un’interpretazione non venisse correttamente definito dal suo grado di “attualità”, anche perché le mode passano più o meno in fretta e lasciano ben poco dietro di loro. Nel campo della musica antica, crediamo che la vera modernità possa consistere nel saper utilizzare tutte le informazioni attualmente disponibili e nel non voler assimilare le espressioni culturali del passato a quelle contemporanee, quanto invece nel saperle vivere e valorizzare per quello che sono, senza volerle ad ogni costo riferire e sovrapporre all’esperienza presente.
Rifiutavamo la sonorità del violino contemporaneo, spesso aggressiva e troppo urlata se applicata al repertorio pre-novecentesco, e puntavamo invece a quella non violenta "imitatione della voce humana" tanto raccomandata da tutti i principali testi antichi per gli strumentisti. Non avevamo troppi modelli concreti a cui riferirci (scarsissima ancora la produzione discografica specializzata), gli insegnanti erano pochi (in Italia nessuno), non si trovavano le corde di budello e internet non esisteva. Era nostra convinzione comunque che la verità andasse ricercata nell’insieme di tutto quanto si potesse desumere dallo studio capillare delle tante fonti, piuttosto che dall’imitazione pedissequa di un isolato esecutore o di un raro disco. Ma le fonti originali – sia quelle dirette che quelle indirette (quindi non solo i trattati specifici) – a volte erano estremamente difficili da procurarsi: cominciavano appena ad esistere case editrici di facsimili.
Come dicevano i “duri” nei films americani degli anni ’50: “è uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo…”. E noi l’abbiamo fatto, contro tutto e tutti. In una stagione in cui la critica musicale ed i Conservatori di musica non ci riconoscevano diritto di cittadinanza in Italia, siamo diventati gli extraparlamentari della musica. E in molti siamo emigrati, per studio e per lavoro: abbiamo contribuito ad ingrossare le file dei “cervelli” italiani in fuga all’estero.
Cosa è rimasto di quella ricerca oggi? Certo il “fenomeno” della musica antica col passare degli anni, divenuto attuale, si è allargato ed è diventato oggetto di mercato, un mercato che ha attirato molti, poiché ha aperto spazi di lavoro. Fra i tanti che sono saliti sul “carro barocco” non si può dire che tutti lo abbiano fatto con purezza di intenti e sincera passione per la cultura del XVII e XVIII secolo. Molto spesso (specie in Italia, ma un po’ ovunque) abbiamo dovuto assistere ed assistiamo alla ricerca artificiale della bizzarria esotica da parte di chi – nel chiasso generale – cerca di urlare più forte degli altri per farsi intendere.
Noi crediamo nella responsabilità dell’interprete. Interpretare oggi consapevolmente opere musicali di un lontano passato necessita, a monte, di una sapienza relativa all’arte del restauro dell’opera e del suo contesto, restauro che precede l’interpretazione vera e propria e ne pone le premesse stilistiche. Per intenderci: oggi nessuno vorrebbe andare a vedere una mostra di dipinti antichi che fossero stati restaurati ridipingendoli come si faceva tanto tempo fa. La visitiamo per conoscere da vicino le intenzioni dell’autore e le sue peculiarità stilistiche, per ripercorrere la sua parabola umana inserita nel contesto dell’epoca in cui si trovò ad operare.
Ebbene, purtroppo in musica questo non sempre avviene.
Ci sono almeno due tipi di interpreti: coloro che tentano questa avventura, e con la metodologia e la costanza del detective, dell’archeologo, dell’appassionato musicologo ricostruiscono un quadro il più completo e fedele possibile alla realtà lontana, da lì poi partendo per una interpretazione personale che si situi all’interno di quel quadro. Così facendo la libertà interpretativa coesiste con la consapevolezza e con la responsabilità di quanto viene trasmesso al pubblico, e si incardina nella necessaria ed attuale riflessione sul rapporto tra ricerca filologica, musicologica ed estetica e prassi esecutiva.
E poi ci sono coloro i quali prendono in mano la musica del passato e la portano vicino a sé stessi, “attualizzandola” in molti modi e con molti mezzi, rendendola così più facile da recepire all’ascoltatore moderno, abituato più a vedere che a “sentire” la musica, esaltando in tal maniera la propria immagine di interpreti.
Noi crediamo che ciò che è veramente bello non abbia mai bisogno di essere “attualizzato”, cioè ridipinto. Noi crediamo che un’opera d’arte immortale sia più importante di un suo eventuale interprete. Noi crediamo che il musicista non debba avvicinare la musica del passato a sé ed al suo tempo presente, ma fare lo sforzo di avvicinarsi all’opera ed alla sua valenza estetica, perché – se l’opera così come essa è non è di interesse per il mondo moderno – allora non vi è ragione perché essa debba essere fruita.
Non esistono lingue morte, ma “solo cervelli in letargo” (Carlos Ruiz Zafón).
Oggi, con la stessa onestà culturale di allora e con una ancora maggiore competenza e consapevolezza professionale, continuiamo con slancio immutato il percorso cominciato oltre 30 anni fa, per la musica, per la bellezza, per la cultura.
solo per la Bellezza, solo per la Cultura
– L’esilio è finito! – diceva El Conde. – Finalmente possiamo mettere in opera quel che abbiamo per tanto tempo meditato! Cosa resti a fare sugli alberi, Barone? Non c’è più motivo!
Cosimo allargò le braccia. – Io sono salito quassù prima di voi, signori, e ci resterò anche dopo!
– Vuoi ritirarti! – gridò El Conde.
– No: resistere – rispose il Barone.
[Italo Calvino, “Il barone rampante”]