Testo scritto nel 2005 su richiesta della "Sagra Musicale Umbra" in occasione di due concerti in Umbria
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Che colpa ne ho io se sono nato in una città così vecchia che è più vecchia di Roma? Si passeggia qua e là e si possono vedere in giro pietre etrusche, in un centro che è concepito interamente sulle misure dell’uomo e che andrebbe esplorato solo a piedi (o a cavallo…). Da ragazzo, quando mi capitava di vedere altre città, più moderne, non riuscivo mai a ritrovare quell’atmosfera, quella situazione dello spirito in cui mi sentivo a casa, e quindi non stupitevi se mi è sempre apparso naturale interessarmi a tutto ciò che è antico e di un qualche valore.
Sì, perché il valore delle cose non viene dato dal solo fatto di essere antiche: per esempio, un violino appena costruito – se fatto da un bravo liutaio – può risultare assai migliore di un mediocre strumento antico, anche se in generale nel passato, rispetto a quanto accade oggi, l’idea di ciò che era considerato buono coincideva maggiormente con l’idea del bello. Come tutti i giovani avevo coltivato l’amore per il rock (suonavo anche la chitarra elettrica e avevo un complessino che si rintanava a provare in un garage, per la delizia dei vicini), col violino avevo invece partecipato a diverse prime esecuzioni di opere contemporanee: la classe di composizione fioriva sotto la guida di Roman Vlad. Mi ricordo che provai anche il violino in versione rock, con possente amplificazione, ma abbandonai presto l’esperimento in quanto non erano né la potenza sonora né il numero delle note suonate ad interessarmi, quanto il timbro, la qualità del suono e l’esplorazione di tutti i colori possibili su quelle quattro corde strofinate da crini di cavallo. La musica del passato crebbe presto dentro di me fino a configurarsi come la passione più naturale, specialmente la musica del settecento. Avevo un amico del cuore: Paolo Franceschini; con lui suonavo tanto Vivaldi e Bach. Fummo compagni per quasi tutto il percorso scolastico, dalla prima elementare fino al liceo classico. Mi ricordo che una volta, alla scuola media del Conservatorio, mezza classe fu sospesa perché si faceva baccano durante l’ora di religione. Imparammo la lezione, però debbo dire che io e Paolo ci divertimmo anche molto, poiché passammo tutta la giornata della sospensione a suonare duetti per due violini. Siccome non mi bastavano più le edizioni che riuscivo a procurarmi a Perugia, mi avventurai per la prima volta in una biblioteca storica: quella del Sacro Convento di S.Francesco ad Assisi. Ero sulle tracce di un unicum di cui avevo avuto notizia facendo le mie prime ricerche: un manoscritto del XVIII secolo contenente inedite sonate per violino. Trovai quel manoscritto e molti altri ancora: era la prima volta che mi confrontavo con le grafie e i sistemi di notazione antichi, e come un bambino mi sentivo felice e sperduto allo stesso tempo. Un frate il cui volto era l’espressione stessa della pazienza e della bontà mi portava il materiale, che era necessario ricopiare a mano (all'epoca non vi era la possibilità di ottenere fotocopie o microfilms). Le mie visite alla biblioteca diventarono talmente assidue che riuscii involontariamente a commuovere quel buon frate, il quale alla fine arrivò addirittura a consigliarmi di portare all’esterno il volume per farne delle copie. Da allora mi è rimasta nell’anima quell’emozione profonda: ogni volta che sono entrato nelle grandi biblioteche di Parigi, Londra, Washington, Vienna, Bruxelles, Roma, Bologna, Torino, Venezia e tante altre, nel momento in cui mi venivano consegnate le opere richieste, in manoscritti rari o pregiate edizioni antiche, sempre ho sentito il sangue riscaldarsi e inondarmi per tutto il corpo. Le tracce: tracce di noi come eravamo prima, tracce di chi ha sentito le stesse nostre emozioni e le ha raccontate con la musica del suo tempo, lasciate lì, in quell’inchiostro secco che rimaneva sulla carta come una metafora della vita, come un simbolo da decifrare e a cui restituire la freschezza della prima esecuzione… Quella stessa emozione dell’anima l’ho provata indifferentemente in biblioteche grandi e piccole, famosissime o quasi sconosciute. La provai anche qualche tempo fa, quando andai a vedere un manoscritto inedito di sonate del ‘600 nella biblioteca di Fossombrone: le sonate del violinista marchigiano Aldebrando Subissati erano state vergate su carta di pregio proveniente con ogni probabilità – visto il tipo di filigrana – dalla zona compresa fra Foligno e Fabriano. Ciò mi fece ricordare che da piccolo mio padre mi portò in cima al monte Pale, poco distante da Foligno: ero un bambino e mi rimase impressa la gran faticata per la pendenza del tratto finale, ma sulla cima ebbi la soddisfazione di piantare un alberello. Non sapevo ancora che quella fosse stata per le cartiere una importantissima zona di produzione, in cui si registrò tra XVI e XVII secolo l’attività di centinaia di mastri cartai di grande abilità. Già da studente di conservatorio frequentai all’esterno i miei primi corsi specifici sul repertorio barocco: feci la conoscenza con il Seicento (il vero periodo centrale di quell’arte che identifichiamo come barocca) e rimasi totalmente affascinato dalla ricerca sperimentale di compositori come Marco Uccellini e Giovanni Antonio Pandolfi Mealli. La mia grande passione per Arcangelo Corelli cominciò invece molto presto. Dovevo recarmi a Roma per seguire un seminario sotto la guida di Jaap Schroeder, e passai nella biblioteca del conservatorio di Perugia (pochissimo frequentata, per la verità a quell’epoca, ma contenente anche diversi volumi rari) per farmi dare in prestito qualcosa da portare a lezione. Così il maestro olandese (allora uno dei pochi specialisti, ed il primo a creare un quartetto d’archi con strumenti d’epoca) mi vide arrivare con sottobraccio una copia originale della prima edizione delle sonate op.V di Corelli, incisa su lastre di rame a Roma il 1° gennaio del 1700. L’ultima sonata, la celebre “Follia”, nel corso dei secoli aveva costituito in parte banchetto per i topi, e risultava alquanto smangiucchiata, ma il resto del volume era integro e ben leggibile. Mi ricordo lo stupore di Jaap Schroeder, che riuscì a caricarmi di così tante motivazioni da convincermi ad intraprendere quella strada, una volta che avessi terminato il conservatorio. Così feci, studiai in Svizzera ed in Olanda, ma vi posso assicurare che non è piacevole essere il primo violinista italiano a specializzarsi nel campo dell’esecuzione della musica del XVII e XVIII secolo con strumenti d’epoca: quando l’ultimo (solo in ordine cronologico) dei miei maestri – Sigiswald Kuijken – mi invitò a suonare nella sua Petite Bande (provavamo “La Creazione” di Haydn) mi presentò sottolineando che venivo dall’Italia. Tutta l’orchestra si voltò allora verso di me con espressione meravigliata, ed io mi sentii un qualcosa di simile ad un animale esotico esposto allo zoo. Tale era allora la situazione e la reputazione della musica antica italiana: inesistente, poiché tutto era esclusivamente nelle mani di musicisti e ricercatori dell’Europa del nord. Oggi, dopo un quarto di secolo, si può dire che tale situazione si sia evoluta e che anche da noi venga considerato ormai necessario un approfondito lavoro di scavo scientifico prima di arrivare ad una attendibile esecuzione di brani musicali del passato (anche se è ancora lontana l’ipotesi di una esecuzione italiana della “Creazione” di Haydn su strumenti d’epoca…). Si tratta di uscire dalla sfera estetica di quel comune denominatore stilistico che informa in genere le esecuzioni contemporanee, per cercare la quintessenza dello stile proprio ad ogni epoca, paese – a volte città – o compositore. Operazione inutile? Fine a se stessa? Non credo. Siamo ormai tutti abituati da tempo ad apprezzare la pittura antica per ciò che era nelle sue intenzioni e colori originali: sono passate le epoche in cui i restauri si sovrapponevano alle opere del passato rubandone trasparenza e leggibilità. Dobbiamo diventare capaci di questa sensibilità anche in rapporto ad un’arte volatile com’è la musica, per sua stessa natura suscettibile di venire snaturata. La ricorrente concentrazione sul contemporaneo si spiega forse per l’ansia di intendere l’enorme complessità di un mondo «globale», limitandosi a conoscerlo quale esso è oggi (e lo sforzo è già grande). Ma gli eventi della storia (anche di due o più secoli fa) tendono così a parere poco interessanti, oppure ad essere evocati saltuariamente in funzione dell’attualità culturale-politico-economica – per esempio quella americana – dotandoli di una sorta di contemporaneità fragile ed effimera, come se avessero una data di scadenza. Il passato, quindi, si appiattisce spesso sul presente, viene assimilato ad esso in virtù dell’uso strumentale che ne viene fatto e costretto ad una soffocante simultaneità virtuale col presente, dando per scontato che le altre culture debbano condividere i valori della nostra. Si tende in tal modo a non riconoscere le diversità (nello spazio e/o nel tempo), o a minimizzarle. E’ in questo senso che secondo un professore dell’università di Berkeley, Nezar Al Sayyad, l’Europa corre il pericolo di abbandonare la propria memoria storica e non vedere più se stessa come un prodotto della storia, ma tende piuttosto ad identificare ormai la propria tradizione solo nella modernità, e cioè in valori dati per indiscutibili; ma allora «nessun cambiamento è più possibile, una volta che l’ispirazione del cambiamento – la conoscenza del proprio passato – è stata sconfessata». Per questi motivi, e per molti altri ancora, sento la necessità di ritornare continuamente al mio passato e di ritornare sempre nella mia Umbria, sempre nel mio cuore.
Enrico Gatti