Testo scritto nel 1990 per il booklet del CD omonimo prodotto originalmente da SYMPHONIA (ora GLOSSA GCD921206)
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Dell’ampio panorama costituito dalla musica barocca italiana vengono generalmente esplorate la prima metà del XVII secolo (l’età di Monteverdi, Frescobaldi e Castello) e la prima metà del XVIII secoio (l’età della piena maturità di Corelli, di Handel e Vivaldi), optando quindi per due periodi ben distinti: il primo, in cui la scrittura musicale viene radicalmente rivoluzionata, il secondo nel quale si arriva alla «standardizzazione» di alcuni archetipi fondamentali dopo una lunga filtrazione. Non bisogna però dimenticare che il luogo in cui questa filtrazione avvenne fu proprio la seconda metà del ’600, quando furono elaborate le numerosissime suggestioni; costruttive e coloristiche ereditate dalla prima parte del secolo, creando le basi per un linguaggio moderno e formalmente stabilizzato.
Possiamo materializzare in una concisissima sintesi alcuni luoghi ed aspetti di questo importante periodo: Stradella a Roma negli anni ’60 concepisce per primo l’idea di un concertino conrtapposto al concerto grosso, inoltre i suoi moduli di scrittura per il basso e per le voci influenzeranno profondamente le generazioni a venire; Torelli a Bologna elabora l’idea di concerti per orchestra con passaggi per un violino solista; Alessandro Scarlatti sviluppa la cantata, l’oratorio e l’opera: la sua influenza sul giovane Handel – che sarà in seguito in Italia per tre anni agli inizi del ’700 – sarà enorme e profonda; Georg Muffat, inviato a Roma per perfezionarsi, si lascia permeare dalle suggestioni strumentali corelliane: i suoi concerti grossi riportano in seguito uno stile che in realrà è solo parzialmente lullista, mentre risulta debitore anche delle triosonate italiane pubblicate negli anni ’70-’80 e dei concerti che Corelli stava già componendo ed eseguendo a Roma; numerosissimi sono i compositori d’oltralpe che subiscono l’influenza italiana – ritenuta d’altronde necessaria per una completa formazione musicale – tramite le loro visite e apprendistato diretto nella penisola, o con la diffusione dell’enorme quantità di edizioni a stampa (edite soprattutto a Bologna, Venezia e Roma), e di cui un musicista al passo con i tempi non poteva ignorare l’esistenza) oppure – mezzo fra i più efficaci – tramite l’operato degli innumerevoli musici italici in servizio nelle Corti e Cappelle d’oltralpe, specialmente in Austria e Germania, fra questi geniali compositori stranieri possiamo annoverare Buxtehude, Purcell, Rosenmüller, Schmelzer, Walther e Biber, ma la lista potrebbe continuare...
Nella prefazione alle Sonnata’s of III parts (1683) Henry Purcell afferma di aver
«faithfully endeavour’d a just imitation of the most fam’d Italian Masters; principally, to bring the Seriousness and gravity of that sort of Musick into vogue, and reputation among our country-men, whose humor, ’tis time now, should begin to loath the levity, and balladry of our neighbours...», dove i «leggeri vicini» sono evidentemenle i francesi; sarebbe forse tempo, quindi, di correggere e completare quella prevalente immagine che della musica italiana del XVII secolo si ha soprattutto all’estero: di una musica cioè «pazza», sempre e solo estroversa o virtuosistica. In realtà la musica italiana era modello di stile e forma (lo sarà più tardi anche per un grande come François Couperin) oltre che di immaginazione e fantasia.
Agonizzante il cornetto (rare ed eccezionali le partiture che ne richiedono ancora l’impiego, come serenate ed oratori di Alessandro Stradella e Giovanni Battista Bassani), il violino è lo strumento che per eccellenza si propone come migliore imitatore della voce umana (Giovanni Antonio Leoni intitola nel 1652 il suo libro I op. III «Sonate di violino a voce sola») e se Corelli può essere definito il «Raffaello» del violino (è infatti qualcosa di più di una banale coincidenza il fatto che entrambi gli artisti siano stali sepolti con tutti gli onori nel Pantheon di Roma), potremmo forse chiamare con termine improprio i violinisti-compositori degli anni 1640-1670 con l’appellativo di «pre-raffaelliti».
Questa incisione vuole essere testimonianza di quello che fu un «laboratorio musicale», e non è sbagliato accostare i compositori che vi sono rappresentati ai liutai cremonesi che proprio negli stessi anni stavano compiendo passi da gigante sul piano dell’evoluzione costruttiva del violino: basti pensare alla bottega di Niccolò Amati trampolino di lancio decisivo per il genio di Antonio Stradivari.
Abbiamo incluso qui due sonate del compositore cremonese Tarquinio Merula (1595 –1665): si tratta di due deliziose sonate da chiesa alquanto sconosciute, poiché di Merula viene eseguita solitamente la sola op. XII. Le due sonate dell’op. Vl (che è una raccolta di musica vocale sacra pubblicata nel 1624, quando Merula era «organista di chiesa e di camera» di Sigismondo III re di Polonia), sono basate su moduli semplici e lineari, proprio per questo efficaci, non mancando pero di grande inventiva melodica e di vivacità ritmica, di artifici quali cromatismi e tremoli o improvvisi cambiamenti di colore.
Marco Uccellini (ca. 1603-1680), sacerdote, fu una specie di Vivaldi ante litteram: capo degli strumenti del duca d’Este a Modena e maestro di cappella del duomo, poi maestro di cappella della corte parmense di Ranuccio II Farnese, scrisse non solo numerosissime sonate per violino in cui sviluppò sia la tecnica d’arco che quella della mano sinistra (toccò la Vl posizione), ma anche opere e balletti, che purtroppo sono andati perduti; figura centrale del violinismo nel XVII secolo affidò alla sua op. IV (da cui è tratta la Luciminia contenta, 1645) le sue composizioni più riuscite, sia a solo che a due ed a tre; nei Sinfonici Concerti brievi... op. IX (1667) lo stile è molto più cortigiano e leggero, e buona parte della raccolta è costituita da danze da ballarsi a palazzo, anche nello stile francese.
Ben poche notizie ci rimangono sul conto di Agostino Guerrieri, che intorno alla metà del secolo era cantore presso la cappella del Duomo di Milano, avendo avuto come insegnante il direttore di quest’ultima, A.M. Turati. Nell’unica opera conosciuta di Guerrieri (op. I 1673) figurano anche sonate del suo maestro, ma l’interesse maggiore deriva dalla presenza di brani specificamenre destinati all’arpa doppia, strumento senz’altro assai utilizzato all’epoca nel ruolo di basso continuo, ma non altrertanto in quello solistico. La Sonata malinconica à solo porta la dedica «alla molto Reverenda Signora e Patrona Collendissima in Christo, la Signora D. Gioanna Francesca Raggi monaca in S Leonardo di Genova»; a proposito della «Melancholia» cioè, come dice l’etimologia greca del nome, l’umor nero, bisogna osservare che essa fu avvertita come connotazione negativa solo in epoca tarda: nell’antichità essa era invece ritenuta segno distintivo delle persone in grado di eccellere nel pensiero, nella politica e nelle arti.
Giovanni Antonio Pandolfi Mealli, di origine toscana, lavorò al servizio dell’arciduca Ferdinando d’Ausrria insieme ad altri suoi concittadini intorno al 1660, anno a cui risale la pubblicazione ad Innsbruck delle sue op. III e IV, dodici sonate per chiesa e camera in cui il violino è assoluto dominatore su un basso rassegnato al più semplice accompagnamento. Le sonate di Pandolfi si aprono e si chiudono quasi sempre con andamenti «Adagio», inframezzari da sezioni con passaggi brillanti e veloci o variazioni su un basso ostinato: nel caso della nostra sonata una passacaglia; queste immaginative sonate ebbero un’influenza decisiva su Heinrich Schmelzer, che quattro anni più tardi pubblicò le sue Sonatae Unarum Fidium, e toccarono quindi direttamente o indirettamente anche il grande violinista Johann Jakob Walther, che comunque avrebbe poi passato tre anni in Italia. L’unica altra opera conosciuta di Pandolfi consiste in brevi suites per 1 e 2 violini con basso continuo, e fu pubblicata nel 1669 a Messina, dove egli risulta impiegato a quel momento.
Un altro violinista-compositore attivo ad Innsbruck fu il toscano Giovanni Buonaventura Viviani (1638-1692), che negli anni ’70 fu direttore della musica di corte. Nel 1678, anno di pubblicazione dei Capricci Armonici op. IV da cui sono tratti i brani qui registrati, diresse a Roma un oratorio a cui parteciparono sia Corelli che Pasquini; fu in seguito direttore di compagnie d’opera, maestro di cappella del principe di Bisignano e della Cattedrale di Pistoia. Fu autore di sette opere, cinque oratori, numerose cantate ed altra musica vocale, sonate, fra cui sono conosciute quelle per «trombetta» incluse nei Capricci Armonici. Particolarmente interessante è la Symphonia Cantabile, in cui viene imitata una cantata a solo con tanto di recitativi, ariosi ed arie nello stile di Antonio Cesti, la cui influenza si faceva certo ancora sentire ad Innsbruck; la sonata I denota invece caratteristiche simili a quelle che si riscontreranno nelle sonate del grande virtuoso H.I. von Biber.
D’origine toscana fu anche Angelo Berardi (1636-1694), che non si dedicò esclusivamente alla composizione ma fu grande teorico (scrisse ben sei trattati), specialmente per ciò che concerne il contrappunto. Berardi occupò il posto di maestro di cappella presso le cattedrali di Viterbo, Tivoli e Spoleto, oltre che a S. Maria in Trastevere a Roma. Prolifico anche come compositore, produsse in massima parte musica sacra ancora oggi ben poco esplorata e conosciuta; la sua op. VII (1670) porta la dedica «alla Molto Reverenda, Signora mia, e Padrona Colendissima la Signora Suor Anna Maria Francesca Rossi, Monica in S. Agostino di Viterbo»: è dunque un altro caso che testimonia come a quest’epoca le donne non fossero affatto escluse dalla vita musicale, anzi l’eccezionali (come diverranno poi le «putte» della Pietà di Vivaldi), stando anche a quanto Berardi afferma a proposito della «tanta suavità e legiadria» che Suor Anna aveva dimostrato nell’esecuzione delle sinfonie a lei dedicate; da notare che il nostro capriccio non è certo un brano di musica sacra: vi si passano in rassegna con curiosità differenti tipi di danze (corrente, balletto, gagliarda) e stili (francese, inglese, tedesco), alternati a sezioni espressive («cromatico» e «arcate»; di quest’ultimo termine Roger North, nei suoi appunti musicali sulla prassi importata dagli italiani a Londra sul firiire del ’600, ci dà come traduzione «long bow», spiegando che si tratta di una arcata lunga con messa di voce ed aggiunta, verso la fine, di vibrato, un accorgimento che in quegli anni cominciava ad andare molto di moda). Altra particolarità del capriccio di Berardi è il «tempo furio di sarabanda presto», in cui si dà la preferenza alla sarabanda di tipo veloce (come accadeva anche in Spagna ed Inghilterra) contrariamente all’uso lento che se ne faceva in Francia, Germania e generalmente in Italia, anche se va detto che da noi i due tipi coesistettero per un certo peiodo; troviamo inoltre alla fine del brano una «perfidia replicata»: la perfidia era una ripetizione ostinata di uno stesso modulo ritmico o passaggio. Berardi stesso ne dette definizione nei suoi Documenti Armonici
(Bologna, 1689), ma già Agostino Agazzari nel 1607 aveva scritto che «il violino richiede bei passaggi, distinti e lunghi, scherzi, rispostine e fughette replicate in più luoghi.. ». Uccellini ne usufruì largamente (anche nella sezione finale della Luciminia), come d’altra parte prima di lui aveva fatto Dario Castello, anticipando moduli di cui cent’anni più tatdi il suo concittadino Vivaldi farà ampio uso (ed abuso).
Di tali «perfidie» troviamo costellata la sinfonia di Carlo Mannelli (1640-1697), soprattutto nell’andamento centrale che fa presagire i movimenti isoritmici dell’op. V di Corelli; e non è sbagliato l’accostamento a Corelli, visto che quest’ultimo suonò per diversi anni come ripienista nelle orchestre di cui Mannelli era primo violino, essendo costui sicuramente considerato uno dei «più valorosi professori musici di Roma», come Corelli stesso ebbe a scrivere nel 1685. Mannelli (detto «Carlo del violino») passò praticamente tutta la sua vita a Roma; fu soprano castrato e prese parte a rappresentazioni d’opera, ma soprattutto a celebrazioni liturgiche; fu anche guardiano alla Congregazione di S. Cecilia. Purtroppo è anda to perduto il suo Studio del violino e delle sue sinfonie a violino solo op. I (anteriori al 1666) ci rimane un’unica sinfonia manoscritta, che è quella da noi qui incisa; in questo brano Mannelli fa largo uso di corde doppie, e tutto il pezzo è avvolto in un’atmosfera molto personale.
Assai diversa invece la figura di Nicola Matteis, napoletano, emigrato a Londra verso il 1670; principalmente violinista (ma si esibì anche come suonatore di mandolino e di chitarra), usava tenere il suo strumento alquanto in basso, secondo una tradizione molto antica; di fatto Matteis unisce lo spirito popolare alla tradizione colta, con movimenti in stile improvvisativo, danze, fugati, accenni umoristici («fuga curta per scarsezza di carta»), non senza lasciarsi influenzare da alcune caratteristiche dello stile inglese, come testimonia l’uso del «ground». I critici britannici furono entusiasti di lui: Evelyn nel 1674 scrive che il nostro violinista aveva «a strock so sweete and made it speak like the voice of a man, and when he pleased, like a consort of severall instruments...»; Burney afferma che Matteis «polished and refined (English) ears, and made them fit and eager for the sonatas», mentre North attribuisce al napoletano il merito di aver scardinato la supremazia sti¡listica della musica francese in Inghilterra, introducendo le nuove conquiste tecniche ed espressive italiane. ¡
Pietro Degli Antoni (1648-1720), fratello dell’organista e compositore Giovanni Battista, fu pluristrumentista oltre che compositore. Vissuto sempre a Bologna, come cornettista fece parte della Cappella Musicale di S. Petronio negli anni di M. Cazzati, fu poi membro della Accademia Filaschise e dell’Accademia Filarmonica, di cui venne eletto «principe» ben sei volte. Maestro di cappella in varie chiese bolognesi, Degli Antoni compose diversi oratori (purtroppo tutti perduti tranne L’innocenza depressa), musica vocale religiosa e secolare, oltre a svariate raccolte di musica strumentale per archi e basso continuo. Nelle sonate dell’op. V (1686) si possono ritrovare le tracce della sua scrittura vocale, ma ciò che caratterizza queste opere è l’importanza accordata alla parte del basso, che dialoga costantemente alla pari col violino, sviluppando gli stessi materiali tematici. E’ anche interessante notare come nel primo «grave» della Vll sonata si trovino almeno due idee riprese da Corelli nel primo movimento della prima sonata dell’op. V.
Enrico Gatti