Testo scritto nel 2010 per il booklet del CD "ON THE SHOULDERS OF GIANTS" pubblicato da Arcana nel 2014
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Poiché l’una [la filosofia] porta a compimento ogni conoscenza, e l’altra [la musica] le prepara la strada (Aristide Quintiliano)
I moderni sono come dei nani che siano montati sulle spalle dei giganti; sebbene essi abbiano così la possibilità di vedere e conoscere un maggior numero di cose rispetto agli antichi, ciò non gli deriva dalla propria statura o dall’acutezza del proprio pensiero, ma unicamente perché sollevati e portati in alto dalla gigantesca grandezza degli antichi. (Dicebat Bernardus Carnotensis nos esse quasi nanos gigantum umeris insidentes, ut possimus plura eis et remotiora uidere, non utique proprii uisus acumine aut eminentia corporis, sed quia in altum subuehimur et extollimur magnitudine gigantium.)
Questa frase, riportata intorno al 1159 dal filosofo John di Salisbury nel suo trattato Metalogicon, riferisce un concetto originale di Bernard de Chartres, uno dei fondatori della scuola francese in cui si svilupparono gli studi platonici. Bernard visse al principio del XII secolo e venne definito perfectissimus inter platonicos saeculi nostri. Fra le principali fonti della scuola di Chartres figurava il Timeo di Platone, riscoperto in quegli anni nella traduzione latina di Calcidio.
Non deve apparire peregrina l’associazione fra la grandezza degli antichi – il fatto che tutto si trovi, almeno in nuce, espresso nella loro cultura - ed il nostro percorso musicale sul contrappunto e la fuga. Le ragioni stesse del contrappunto e della sua essenza trovano radice nei princìpi pitagorici, molti dei quali furono ripresi da Platone e più tardi dai filosofi neo-platonici.
Al di là del suo significato tecnico-compositivo e storico, che rimanda soprattutto allo stile palestriniano, il termine Contrappunto – puntum contra punctum – in quanto ha come proprietà quella di rappresentare il principio dualistico, allude al pensiero pitagorico, nella misura in cui i pitagorici “vedevano nei contrari i principi delle cose” (Aristotele, Metafisica A 5, 986 b 3). Un altro importante passo della Metafisica di Aristotele che conforta questa ipotesi è la tavola pitagorica dei contrari. La lettera “chi” [ ] fu assunta dai Greci come simbolo grafico della ponderatio: essa esprime cioè l’equilibrio raggiunto attraverso la proporzione di due elementi opposti. Apollo viene raffigurato tra le Muse sul frontone occidentale del tempio di Delfi, ma nello stesso tempio è raffigurato, sul frontone orientale opposto, Dioniso, dio del caos e della sfrenata infrazione di ogni regola. Questa compresenza di due divinità antitetiche non è casuale ed esprime la possibilità di un’irruzione del caos nella bella armonia. Si esprimono qui alcune antitesi significative che rimangono irrisolte entro la concezione greca della Bellezza, che risulta essere ben più complessa e problematica delle semplificazioni operate dalla tradizione classica. L’armonia serena, intesa come ordine e misura, si esprime in quella che Nietzsche denomina Bellezza apollinea. Ma questa Bellezza è al tempo stesso uno schermo che cerca di cancellare la presenza di una Bellezza dionisiaca, che non si esprime nelle forme apparenti. Questa Bellezza notturna e conturbante rimarrà nascosta sino all’età moderna per configurarsi poi come il serbatoio segreto e vitale delle espressioni contemporanee della Bellezza, prendendosi la sua rivincita sulla bella armonia classica.
Per i primi pitagorici l’armonia consiste, sì, nella opposizione, oltre che del pari e dell’impari, di limite e illimitato, unità e molteplicità, destra e sinistra, maschile e femminile, quadrato e rettangolo, retta e curva, e così via, ma sembra che per Pitagora e i suoi immediati discepoli, nella opposizione di due contrari, uno solo rappresenti la perfezione: l’impari, la retta e il quadrato sono buoni e belli, le realtà opposte rappresentano l’errore, il male e la disarmonia. Diversa sarà la soluzione proposta da Eraclito: se esistono nell’universo degli opposti, delle realtà che paiono non conciliarsi, come l’unità e la molteplicità, l’amore e l’odio, la pace e la guerra, la calma e il movimento, l’armonia tra questi opposti non si realizzerà annullando uno di essi, ma proprio lasciando vivere entrambi in una tensione continua. L’armonia non è assenza bensì equilibrio di contrasti. I pitagorici successivi coglieranno questi suggerimenti e li convoglieranno nel corpo delle loro dottrine. Nasce così l’idea di un equilibrio tra due entità opposte che si neutralizzano l’una con l’altra, di una polarità tra due aspetti che sarebbero l’un con l’altro contraddittori e che diventano armonici solo perché si contrappongono dando vita ad una simmetria. E quindi la speculazione pitagorica dà ragione di un’esigenza di simmetria che era stata sempre viva in tutta l’arte greca e che diventa uno dei canoni del bello nell’arte della Grecia classica. Nel XII secolo, Ugo di San Vittore afferma che corpo e anima riflettono la perfezione della Bellezza divina, l’uno fondandosi sulla cifra pari, imperfetta e instabile, la seconda sulla cifra dispari, determinata e perfetta; e la vita spirituale si basa su una dialettica matematica fondata sulla perfezione della decade.
Contrariamente a quanto in seguito si crederà, l’arte greca non idealizza un corpo astratto, ma ricerca piuttosto una Bellezza ideale operando una sintesi di corpi vivi, nella quale si esprime una Bellezza psicofisica che armonizza l’anima ed il corpo, ovvero la Bellezza delle forme e la bontà dell’animo: è questo l’ideale della Kalokagathía, la cui espressione più alta sono i versi di Saffo e le sculture di Prassitele. La musica di Palestrina incarna l’ideale della Kalokagathía, quell’imperturbabilità che deriva dalla coscienza della propria assoluta superiorità, l’assenza di ogni passione contingente, la capacità di autocontrollarsi e di dominare i propri impulsi per sottomettersi alle norme che regolano il mondo umano e divino. L’idea del bello elaborata dall’antichità ripone infatti la bellezza nella proporzione delle parti. Tale concetto è dovuto al pensiero pitagorico, il quale dall’osservazione della natura e dei fenomeni celesti, dietro l’apparente caos del loro manifestarsi, intravede la presenza di un ordinato, immutabile ed eterno succedersi degli eventi. In questo contesto il numero appare come lo strumento più adeguato per rappresentare l’ordine del cosmo. Capace di conferire misura ai suoni (musica), ai colori (pittura), alle proporzioni (scultura) e ai movimenti umani (danza), il numero è posto a fondamento di una visione della realtà in cui proporzione e simmetria diventano sinonimi di bellezza. Tale convinzione si ritrova in Platone, nell’elogio che egli fa della bellezza dell’ordine cosmico. All’origine di ogni manifestazione del bello vi è la messa al bando di tutto ciò che risulta illimitato, indeterminato. Il bello è manifestazione piuttosto della delimitazione, della proporzione. Ma la posizione di Platone è forse più complessa, e da essa nasceranno le due concezioni più importanti della Bellezza che siano state elaborate nel corso dei secoli: la Bellezza come armonia e proporzione delle parti (derivata da Pitagora), e la Bellezza come splendore, esposta nel Fedro, che influenzerà il pensiero neoplatonico.
“Il più bello dei legami è quello che faccia, per quanto è possibile, una cosa sola di sé e delle cose legate: ora la proporzione compie ciò in modo bellissimo” (Platone, Timeo, V).
Tutte le più alte forme di civiltà hanno creduto in un ordine basato sui numeri e sui rapporti numerici. Una correlazione armonica, spesso dal carattere mistico e fantastico, veniva ricercata e istituita tra le concezioni dell’universo, del cosmo e della vita umana. Del resto, secondo la moderna psicologia della Gestalt vi è un bisogno di ordine profondamente radicato nella natura umana che si esprime già al livello della semplice sensazione la quale, alla luce delle ricerche sperimentali moderne, appare come un’attività mentale in grado di strutturare, sintetizzare e proporzionare la complessità eterogenea del mondo reale. La spinta alla ricerca della regolarità sarebbe quindi un impulso prioritario, antecedente ogni riflessione razionale. Ricerche etologiche ancora più recenti hanno dimostrato che persino alcune specie del mondo animale nutrono analoghe preferenze per i sistemi ordinati, geometrici, simmetrici ed equilibrati. Da tempo immemorabile la proporzionalità fu assunta come un criterio applicabile a tutte le manifestazioni dell’essere e fu quindi sistematicamente impiegata in ogni aspetto della vita. I rapporti che regolano le dimensioni dei templi greci, gli intervalli tra le colonne o i rapporti fra le varie parti della facciata corrispondono agli stessi rapporti che regolano gli intervalli musicali. L’idea di passare dal concetto aritmetico di numero al concetto geometrico-spaziale di rapporti tra vari punti, è appunto pitagorica. I pitagorici sono i primi a studiare i rapporti matematici che regolano i suoni musicali, le proporzioni su cui si basano gli intervalli, il rapporto tra la lunghezza di una corda e l’altezza di un suono e Pitagora fondò sul rapporto di armonia che intercorre tra i numeri e i suoni della scala musicale la sua ricerca dell’arché o principio primo della natura. L’idea dell’armonia musicale si associa strettamente a ogni regola per la produzione del Bello.
Crisippo[…] afferma che la Bellezza non risiede nei singoli elementi, ma nell’armoniosa proporzione delle parti, nella proporzione di un dito rispetto all’altro, di tutte le dita rispetto al resto della mano, del resto della mano rispetto al polso, di questo rispetto all’avambraccio, dell’avambraccio rispetto all’intero braccio, infine di tutte le parti a tutte le altre, come è scritto nel Canone di Policleto (Claudio Galeno, Placita Hippocratis et Platonis, V, 3).
Questa idea della proporzione attraversa tutta l’antichità e si trasmette al Medioevo attraverso l’opera di Boezio tra IV e V secolo d.C. . Boezio ricorda come i pitagorici sapessero che i diversi modi musicali influiscono diversamente sulla psicologia degli individui, e parlassero di ritmi duri e ritmi temperati, ritmi adatti a educare gagliardamente i fanciulli e ritmi molli e lascivi. I pitagorici, pacificando nel sonno le cure quotidiane, si facevano addormentare da determinate cantilene; svegliatisi si liberavano dal torpore del sonno con altre modulazioni.
La concezione matematica del mondo si ritroverà anche in Platone, e specialmente nel dialogo Timeo. Tra Umanesimo e Rinascimento, epoche in cui si assiste ad un ritorno del platonismo, i corpi regolari platonici vengono studiati e celebrati appunto come modelli ideali da Leonardo, nel De prospectiva pingendi di Piero della Francesca, nel De Divina proportione di Luca Pacioli, nel Della simmetria dei corpi umani di Dürer. La divina proporzione di cui parla Pacioli è la sezione aurea, quel rapporto che si realizza in un segmento AB quando, posto un punto C di divisione, AB sta ad AC come AC sta a CB. Si è riscontrato che questo rapporto è anche principio della crescita di alcuni organismi ed è alla base di moltissime composizioni architettoniche e pittoriche. E` considerato “perfetto”, poiché potenzialmente riproducibile all’infinito. Da notare che i liutai cremonesi del XVI e XVII secolo costruivano ancora i loro strumenti musicali dividendone le diverse parti secondo la “divina proportione”.
Nella visione pitagorica – come riferisce Aristotele nel De caelo – lo stesso intero universo deve essere considerato un enorme strumento musicale, poiché il movimento circolare degli astri emette dei suoni, e la nostra musica terrena è solo un’imitazione della musica del cosmo. Nell’intestazione al terzo capitolo del primo manuale di armonia del neopitagorico Nicomaco di Gerasa si legge letteralmente:
Il paragrafo in cui si tratta della prima musica che si trova nel campo della percezione sensoriale, cioè la musica dei pianeti. La musica cui siamo avvezzi, però, non è che un’imitazione di quella (Nicomaco di Gerasa, Harmon. Man. Lib.I).
Una descrizione dell’armonia delle sfere ci viene offerta dal famoso racconto di Cicerone:
Tutte le cose sono riunite entro nove cerchi, o meglio sfere. Una di queste è quella celeste, la più esterna, che contiene tutte le altre, è il sommo Dio, che circonda e comprende le altre. Ad essa sono fissate le orbite eternamente ruotanti delle stelle. Sotto di essa ve ne sono sette, che orbitano all’indietro, con movimento contrario a quello del cielo […] Ma quelle otto orbite, di cui due possiedono la stessa forza, producono attraverso gli intervalli sette suoni diversi, un numero, che è il nodo di quasi tutte le cose; i sapienti hanno cercato di imitarli con le corde e con le voci, aprendosi così la strada per tornare a quel luogo, come altri, che con eccelso vigore dello spirito furono dediti a studi divini nella loro vita mortale (Marco Tullio Cicerone, Somnium Scipionis).
I pitagorici vedevano la nostra musica terrena come imitazione della musica del cosmo, ed in questa luce si possono inquadrare anche quelle composizioni “neopitagoriche” come il Canon Perpetuus della Musicalisches Opfer di Bach.
Per la tradizione pitagorica (e il concetto sarà ritrasmesso al Medioevo da Boezio, che fungerà da tramite fra Pitagora, Platone e la scuola di Chartres), l’anima e il corpo sono soggetti alle stesse leggi che regolano i fenomeni musicali, e queste stesse proporzioni si ritrovano nell’armonia del cosmo, così che micro e macrocosmo (il mondo in cui viviamo e l’intero universo) appaiono legati da un’unica regola matematica ed estetica insieme. Questa regola si manifesta nella musica mondana: si tratta della gamma musicale prodotta dai pianeti di cui parla Pitagora i quali, ruotando intorno alla terra immobile, generano ciascuno un suono tanto più acuto quanto più lontano il pianeta è dalla terra e quanto più rapido, quindi, è il suo movimento. Dall’insieme proviene una musica dolcissima che noi non intendiamo per inadeguatezza dei nostri sensi. "Così egli [Pitagora] attribuiva il primato all'educazione mediante la musica" (Giamblico, De vita Pytagorica liber).
Nell’importante opera Harmonices Mundi (1619) di Johannes Kepler (o Keplero) il contrappunto, come termine tecnico musicale (punctum contra punctum), si ricollega all’idea dell’armonia delle sfere. Keplero usa alcune citazioni del neoplatonico Proclo come premessa a tre dei suoi cinque libri, e nella prefazione definisce l’Harmonices Mundi come un’opera che riecheggia Pitagora e Platone, infine, nel terzo libro, parla “come discepolo di Pitagora”. Così “L’Armonia delle sfere” tanto ricercata, precisa Nicomaco da Gerasa, “procede sempre dai contrari…” (op. cit.).
Nel 1743 Lorenz Christoph Mizler dedica la propria tesi di laurea (Dissertatio quod musica sit pars eruditionis philosophicae), tra gli altri, a Johann Sebastian Bach. Il problema principale per Mizler (che fu il primo docente universitario a tenere lezioni sulla musica a Lipsia) fu sempre quello di dimostrare che la musica è parte integrante della filosofia. Nell'aprile1738 Mizler fonda la Societät der musikalischen Wissenschaften, e nella premessa allo statuto (pubblicato sul periodico Musikalische Bibliothek che vide la luce nel periodo 1736-1754) egli esige dai membri, accanto alla conoscenza storica della musica – si ricorderà che Pitagora chiamava la geometria historia () – soprattutto una competenza filosofica e, cosa “che sino all’ora presente ben pochi riconoscono” una competenza matematica, che “nella musica dev’essere assolutamente unita a quella filosofica”. J.S.Bach entrò a far parte della Societät der musikalischen Wissenschaften nel 1747 quale quattordicesimo membro (Telemann ne era stato il sesto ed Händel l’undicesimo).
La relazione della musica con l’”intero edificio del mondo” viene spiegata da Mizler come “filosofia pitagorica” in un brano pubblicato dalla Musikalische Bibliothek. Vi si legge:
Sulla concordanza e la simmetria dell’intero edificio del cosmo molto è stato detto dagli antichi sapienti, specie da Platone, che in questo punto segue la filosofia pitagorica; e molto è stato detto anche sulla musica dei corpi celesti, di cui si leggono tracce anche in Cicerone, nel sogno di Scipione, e nel commentario di Macrobio. Che l’intero edificio del cosmo, come pensavano gli antichi, debba veramente essere composto secondo la più perfetta proporzione si può dedurre con sicurezza da questo: se nei singoli corpi celesti, come parti del tutto, si possono rinvenire tante eccellenti concordanze e perfezioni, quale armonia, quale perfezione e bellezza non dev’essere presente nell’intero, nel capolavoro dell’essere più perfetto? Ora, poiché la musica è l’ordine migliore che l’intelletto umano può rappresentarsi, rispecchiato nella dimensione del piccolo, gli antichi hanno affermato del tutto a ragione che la musica rappresenta l’armonia dell’intero edificio del cosmo.
In un altro passaggio della Musikalische Bibliothek, alludendo al III libro della Repubblica, così si esprime Mizler:
Se col termine “musico” ci si immagina qualcuno che suona un concerto, allora sarebbe davvero ridicolo dire che costui è un filosofo perché sa suonare uno strumento. Platone intende quel dotto, che sa riconoscere e determinare la natura dei migliori rapporti… in una parola, un musico dotto, in grado perciò di cogliere quei rapporti nella musica e di determinarli anche in altre cose.
Secondo Platone ogni arte, scienza o tecnica è valida se, oltre a ciò che è proprio di ciascuna, trova una sua armonica collocazione, un valore etico e pubblico in corrispondenza all’unico Bene che le governa. Non c’è vero sapere se si rimane nella particolarità delle competenze, delle abilità, delle procedure codificate che formano ogni singola arte (La Repubblica).
Nella Musikalische Bibliothek di Mizler compare anche la bellissima definizione leibniziana di musica, propugnata da un altro membro della Societät, Christoph Gottlieb Schröter. Per la sua sostanza matematica, la definizione può dirsi pitagorica: Musica est exercitium Arithmeticae occultum, nescientis se numerare animi (La musica è un’aritmetica occulta dello spirito, ignaro del proprio numerare).
Esiste anche un importante legame fra il tedesco Mizler e l’italiano Ludovico Antonio Muratori (1672-1750). Nel 1742 Mizler pubblica infatti nella Musikalische Bibliothek una “traduzione del V paragrafo dal III libro della Perfetta poesia italiana del Signor Muratori, che tratta dell’opera”. Vi si legge:
Sebbene gli antichi forse non legassero la musica ai molti artifici del contrappunto, Cicerone testimonia, nel secondo volume delle Leggi, che parecchie città della Grecia, abbandonata la maestà e la serietà della musica, si erano date ad una debole piacevolezza …
Dopo aver lamentato lo stato della musica dei suoi tempi, con particolare riferimento a quella che “si manifesta sulla scena”, anche citando Quintiliano a suffragio della propria tesi, Muratori così prosegue:
Verranno, però, come io spero, tempi più saggi, che forgeranno una nuova musica, e le renderanno quella maestà, quell’onore e quel decoro di cui essa ha assoluto bisogno per ridestare il piacere razionale.
A questo punto Mizler interviene concludendo:
In verità questi tempi migliori sono iniziati, in Germania, da quando i membri della Società delle Scienze musicali non soltanto si sono adoperati per porre le giuste fondamenta di tutta la musica, ma, in base alla legge della Società, debbono fare in modo che sia riscattata la maestà della musica antica, e che essa si costituisca in modo da migliorare i costumi e purificare le passioni.
La “maestà della musica antica” non è limitata allo stylus antiquus, canonizzato da Johann Joseph Fux nel suo Gradus ad Parnassum (1725) sul modello venerato di Palestrina, ma si può ricollegare altrettanto facilmente alla musica greca dell’antichità. Infatti, sia il concetto di Muratori sulla “gravità e severità della musica”, sia l’espressione variata di Mizler, “antica maestà della musica”, sono in realtà una felice parafrasi tratta dal II libro, cap. XV, del De legibus di Cicerone.
In questo percorso musicale abbiamo voluto esplorare la fuga ed i procedimenti fugali in molte delle loro varie declinazioni, attraversando epoche fra loro anche lontane, ed ovviamente differenti. Al di là di tutto, lo scopo di questo programma è quello di offrire agli amanti della musica una buona ora in compagnia di alcuni fra i più grandi genii di tutti i tempi. Il nostro desiderio è quello di far entrare gli ascoltatori nella trama della fuga, nel vivo di quella conversazione “spirituale” in cui varie voci autonome amano parlare degli stessi argomenti. Uno degli argomenti principali, se si vuole, potrebbe essere questo: l’uomo è qualcuno che cammina, che oscilla, spesso sbaglia, ma si ostina comunque sempre a perseguire una perpetua riconquista della propria libertà, della propria innocenza.
Per quanto riguarda la prima parte del programma l’intento che ci ha mosso – è evidente – non è certo quello filologico. Potrebbe forse destare sorpresa e far arricciare il naso a qualcuno la nostra scelta di suonare con un quartetto d’archi brani vocali di Palestrina e Lasso, opere tastieristiche di Frescobaldi: lungi da noi la volontà di dissacrare alcunché. Ma, a riguardo della pratica qui presentata, sarà utile sapere, ad esempio, che già intorno al 1500 un cantore ferrarese testimoniava per iscritto l’esecuzione strumentale di alcune musiche vocali composte da Josquin Desprez, e quando il secondo libro dei madrigali a quattro voci di Cipriano de Rore fu pubblicato in partitura nel 1577 fu definito nel frontespizio adatto “per sonar d’ogni sorte d’Istrumento perfetto, & per Qualunque studioso di Contrapunti”. C’è inoltre da notare che nel 1628, a Roma, nel dare alle stampe in partitura le canzoni di Girolamo Frescobaldi, Bartolomeo Grassi ricorda – a riguardo del primo libro delle toccate per cembalo dello stesso Frescobaldi, che era stato precedentemente pubblicato in intavolatura tastieristica – come “è stato necessario à chi ha voluto servirsene per altri stromenti di accomodarlo con gran fatica” nella loro “normale” notazione, e prosegue consigliando “ogni studioso, che faccia provisione di tutte le opere del Signor Girolamo…”. Più tardi, nel 1635, la pubblicazione dei Fiori Musicali frescobaldiani avverrà nuovamente in partitura a quattro righi separati, con l’esplicita dicitura “in partitura a quattro, utili per sonatori”.
Il quartetto d’archi costituisce l’ideale realizzazione della Tetraktys (la Tetraktys, che si fonda sul numero dieci, rimanda agli intervalli fondamentali dei pitagorici: gli intervalli di quarta, quinta, ottava e doppia ottava derivano dai rapporti numerici da 1 a 4). Così ne parla Teone di Smirne:
Questa Tetraktys ha la natura di una sintesi, giacché in essa si possono trovare tutte le consonanze. Tuttavia, non solo per questo essa occupa un posto privilegiato presso tutti i pitagorici, ma anche perché sembra avere in sé la natura di tutte le cose… (Theon Smyrnaeus, Expositio rerum mathematicarum ad legendum Platonem utilium).
La Tetraktys è la figura simbolica su cui i pitagorici compiono i loro giuramenti, nella quale si condensa in misura perfetta ed esemplare la riduzione del numerico allo spaziale, dell’aritmetico al geometrico. Il numero quattro è quindi principio fondatore dell’ordine. Emblematicamente, le prime quattro fughe dell’Arte della Fuga si aprono con un gruppo di quattro minime per battuta, configurazione che caratterizza la musica fondata sullo stylus antiquus dei modi ecclesiastici; questi, a loro volta, si basano sulla ricezione medievale della teoria musicale greca – avvenuta non senza qualche fraintendimento – da cui seguì un dislocamento dei nomi dei modi. Il modo dorico è quello preferito da Pitagora; così scrive Giamblico:
Metrodoro [….] dice, […] che Pitagora riteneva il dorico il migliore fra i dialetti, e lo stesso pensava dell’omonimo modo musicale. (Giamblico, De vita Pytagorica liber).
Mizler chiarisce che “il modo dorico oggi è il nostro re minore”. Ora, il re minore è non solamente la tonalità d’impianto dell’Arte della fuga, ma è – guarda caso – quella stessa in cui sono scritti quasi tutti i brani che costituiscono la prima parte del programma.
Sul piano metrico le prime quattro minime dei primi quattro contrappunti dell’Arte della fuga – così come il soggetto iniziale della fuga nel quartetto KV 387 di Mozart – corrispondono all’antico “doppio spondeo” composto da “quattro lunghe” (Aristide Quintiliano, De Musica). Il metro spondaico è uno dei versi consigliati da Pitagora, come viene illustrato in un aneddoto tramandato da vari antichi autori, secondo cui Pitagora riuscì a distogliere un giovane ubriaco di Tauromenion dal commettere violenze, esortando un aulete a mutare il ritmo dal frigio allo spondaico (Giamblico, op. cit.).
Nella nostra “strada del contrappunto” da Palestrina, attraverso alcuni “padri” della sonata strumentale barocca come Castello e Marini, è facile arrivare ad Arcangelo Corelli, vero erede “morale” di quella severa linea contrappuntistica romana che era passata attraverso Carissimi.
Johann Rosenmüller – formatosi fra l’altro a Lipsia nella Thomasschule, dove tradizionalmente gli studi pitagorici venivano molto considerati – si trovò ad essere nominato compositore del Conservatorio della Pietà di Venezia proprio nell’anno in cui nacque Antonio Vivaldi. Di certo nel suo stile si ritrovano i colori della canzone polifonica veneziana: nella sonata VII sono notevoli sia l’esplorazione del contrappunto cromatico (dapprima ascendente, quindi discendente) che i due fugati con soggetti tipici della canzona vivace, caratterizzati dalle note ribattute.
L’Arte della Fuga di Bach (la cui genesi sembra fortemente risalire all’influenza delle teorie di L.C. Mizler) costituisce un illustre esempio di come l’idea degli opposti venga applicata in musica. Il principio dualistico insito nello stile contrappuntistico vi si manifesta in modo imponente soprattutto nell’uso del moto contrario, del rivolto dei soggetti, dell’augmentazione e diminuzione.
Si potrebbe definire l’Adagio e Fuga KV 546 di Mozart come una descrizione del dolore e della disperazione. Quest’opera (una rielaborazione della Fuga KV 426 per due pianoforti) è datata 26 giugno 1788 e vede la luce in un periodo assai buio per il nostro compositore, costretto – come si ricava da diverse lettere inviate nello stesso mese di giugno – a domandare in prestito una grossa somma di denaro al confratello massone Puchberg. Fra l’altro, in una lettera scritta il giorno dopo aver terminato l’Adagio e Fuga, Mozart confessa di non essere in grado di restituire il prestito come promesso. Già la scelta della tonalità di do minore risulta assai emblematica dello stato d’animo che pervade quest’opera. L’adagio iniziale è caratterizzato da fieri ed energici ritmi puntati alla francese che trovano il loro contraltare in una seconda figura di note puntate ma legate, suonate piano. La condotta armonica di Mozart ricerca lo spiazzamento dell’ascoltatore, raggiunto con effetti a volte lancinanti. Segue una fuga caratterizzata da un soggetto contorto, come avvitato su sé stesso. Gli intrecci imitativi fra le parti, i soggetti esposti anche al rovescio e finalmente esposti simultaneamente per dritto e per rovescio creano situazioni di alta drammaticità, dovuta anche ad un’insistita ambiguità tonale. Si ha come la sensazione della mancanza di una sicurezza, di una “casa” verso cui fare ritorno: tutto viene drammaticamente messo in dubbio.
Completamente lontano da questa oscura atmosfera di tragedia, il quartetto in sol maggiore KV 387 si dipana in un’ambientazione diametralmente opposta; in quel 1782 Mozart è libero artista a Vienna, tiene lezioni private, accademie e concerti, frequenta l’imperatore, ed il 4 agosto sposerà Constanze. Dimora quindi nel corso di tutto il quartetto una gioia solare e ricca d’energia, pur con la necessaria esplorazione delle connotazioni laterali al carattere d’impianto (espresse in modo sublime soprattutto nell’incantevole terzo movimento, adagio).
Il gruppo dei sei quartetti op.X di cui fa parte il KV 387 non solo segue il modello di Haydn, ma fu anche a lui dedicato. Riscosse il plauso e l’apprezzamento dell’importante dedicatario e di numerosi altri musicisti, anche italiani (che all’epoca erano dediti ad uno stile affatto diverso), come si può leggere in questo curioso brano:
Partì poi Atwood per Vienna onde finire i suoi studii sotto W.A.Mozart. Arrivò il mio amico in quella metropoli al momento che quell’egregio compositore aveva dato alla luce i suoi sei quartetti dedicati ad Hayden [sic], e me ne inviò una copia a Napoli, con una lettera nella quale mi raccomandava di non giudicarne senza averli sentiti più volte. Li provai con dilettanti e professori, ma non potevamo eseguire che i movimenti lenti, ed anche quelli malamente; ne misi in partitura degli squarci, tra gli altri la fuga in G [sol] del primo quartetto [KV 387]. La mostrai a [Gaetano] Latilla [famoso compositore, zio e primo insegnante di Niccolò Piccinni] ed egli, dopo aver esaminato la prima parte, mi disse ch’era una gran bella cosa. Scrutinando poscia nelle modulazioni e combinazioni ingegnose della seconda parte e arrivato alla ripresa del soggetto ripose la mia copia sulla tavola, esclamando tutto stupefatto: “Chisto è ‘o piezzo ‘e museca cchiù bello e cchiù spanto [meraviglioso] c’aggio visto da che so’ vivo!” (Giacomo Gottifredo Ferrari, Aneddoti piacevoli e interessanti, occorsi nella vita di Giacomo Gottifredo Ferrari, London 1830).
L’interesse di Mozart per la composizione di fughe è certamente da collegare alla frequentazione del barone van Swieten, ma non solamente, come si ricava da alcuni brani di lettere:
…la pregherei di inviarmi le sei fughe di Händel [6 fughe per clavicembalo del 1735] e le toccate e fughe di Eberlin [9 toccate e fughe per l’organo di Johann Ernst Eberlin, 1747]. Ogni domenica alle dodici mi reco dal barone van Swieten e là non si suona altro che Händel e Bach. Mi sto appunto facendo una collezione di fughe dei Bach, sia di Sebastian che di Emanuel e di Friedemann. E poi anche delle fughe di Händel… (Wolfgang Amadeus Mozart, lettera al padre del 10 aprile 1782).
…Ti mando qui un Praeludio e una fuga a tre voci [KV 394 per pianoforte]. La venuta al mondo di questa fuga è dovuta in realtà alla mia cara Constanze. Il barone van Swieten, da cui mi reco ogni domenica, mi ha dato da portare a casa tutte le opere di Händel e di Sebastian Bach (dopo che gliele avevo suonate tutte). Quando Constanze ha sentito le fughe, se ne è subito innamorata. Non vuole sentire che fughe e, in questo genere, nient’altro che Händel e Bach. Siccome mi ha sentito spesso improvvisare fughe, mi ha chiesto se non ne avessi scritta nessuna. E quando le ho detto di no, mi ha rimproverato molto di non voler comporre nella forma musicale più bella e che richiede più arte. E non mi ha dato pace con le sue preghiere finché non gliene ho scritta una. Ed ora ecco il risultato. Mi sono dato cura di scriverci sopra Andante Maestoso, affinché non venga suonata troppo velocemente: se una fuga non viene suonata lentamente, non se ne può riconoscere distintamente e chiaramente il tema, quando viene introdotto, e così si perde l’effetto. (Wolfgang Amadeus Mozart, lettera alla sorella del 20 aprile 1782).
La radiosa fuga che chiude il quartetto KV 387, insieme alla così tanto diversa fuga KV 546, testimonia come, anche per il tramite della fuga, si possano chiaramente e vigorosamente esprimere gli stati d’animo più disparati fra loro. Nella teoria della composizione detta Musica Poetica (melopoetica o melopoiia) che si sviluppò in Germania a partire dalla metà del XVI secolo fino all’inizio del XVIII, e che già nel nome () si richiama all’antichità – per la precisione al De Musica di Aristide Quintiliano e al De Melopoeia di Marziano Capella – la fuga fa parte delle figure musicali che possono assumere carattere di immagine, e “serve ad esprimere azioni che si susseguono” (servit quoque actionibus successivis exprimendis, Athanasius Kircher, Musurgia Universalis, 1650).
In particolare, la fuga finale del quartetto KV 387 (fuga con due soggetti) illustra perfettamente cosa significhi ricercare l’armonia attraverso l’utilizzo di principi contrapposti e contrari. Infatti il primo soggetto, costituito da una frase cantabile di note lunghe e legate, è complementare ad un controsoggetto agitato ed in sincope, mentre il secondo soggetto, molto ritmato e scandito, trova il suo corrispondente opposto in una semplice figura di quarti passeggianti. Il risultato è quello di una musica perfetta ed equilibrata che – nell’ambito dell’atmosfera generale che pervade tutto il quartetto – riesce a descrivere un’ampia gamma di emozioni. Qui si attinge a quel concetto di bellezza che è, in quanto armonia, unità: unità armonica che sta, (come Idea nel senso platonico del termine) in una dimensione che solo il pensiero può cogliere. Cogliere il bello è pervenire dunque alla conoscenza, ovvero riportare ciò che è disperso, la molteplicità delle cose che costituiscono la realtà, all’unità originaria; e la bellezza è questa unità perché è armonia che in quanto tale non sta nelle cose del mondo, ma nel pensiero che, innalzandosi al di sopra della stessa realtà, la coglie come forma unica. Si realizza così quanto auspicato da Senofonte, secondo cui “lo scultore deve rendere attraverso la forma esteriore l’attività dell’anima” (Detti memorabili di Socrate, III).
I platonici affermano la superiorità del mondo intelligibile su quello sensibile ed il primato dell’intuizione intellettuale sull’esperienza. Da qui il modello di un superamento del sensibile attraverso un processo interiore che è insieme conoscenza e ascesi morale. “Fuga” in Plotino non è altro che il ritorno dell’anima a Dio, la liberazione dell’anima dalla materia. La figura di Odisseo che anela alla patria rappresenta per lui l’anima, che vuole fare ritorno al “padre”, all’ ”uno”. La metafora del viaggio come processo di acquisizione della conoscenza, cara a Platone, era già stata utilizzata da Parmenide, che aveva immaginato un itinerario ben preciso per giungere dalla “falsa opinione” al “vero sapere”. Ed i neopitagorici Numenio e Cronio, le cui opere erano oggetto di studio presso la scuola filosofica di Plotino a Roma, avevano interpretato Odisseo come simbolo dell’anima. Infatti, secondo Platone, l’abbandono del corpo e del sensibile da parte dell’anima costituisce il presupposto necessario per poter pervenire all’esercizio della “retta filosofia” e alla visione delle idee. Nella Repubblica, attraverso la famosa allegoria della caverna, Platone ci racconta la difficoltà e la radicalità del cambiamento richiesto all’uomo per intraprendere il cammino verso la conoscenza: difficoltà di passare dal mondo “sensibile” a quello “intelligibile”, e dall’opinione, dalla passione, alla scienza e al bene. Ecco un importante passo tratto delle Enneadi di Plotino:
“Lasciateci dunque fuggire verso l’amata patria” - così potremmo ammonire a maggior ragione. E in che cosa consiste questa fuga, e come avviene? Prenderemo il largo come Odisseo dalla maga Circe o da Calipso, come dice il poeta, e vi lega, io credo, un senso nascosto: Odisseo non era soddisfatto di restare, quantunque possedesse il piacere che si vede con gli occhi, e godesse la pienezza della bellezza sensibile. Perché là è la nostra patria, da cui proveniamo, e là è il nostro padre. Che viaggio è dunque, questa fuga? Non con i piedi devi compierlo, giacché i piedi, ovunque si vada, conducono solo da un paese all’altro. Non devi neppure approntare un veicolo, trainato da cavalli o che naviga sul mare; no, tu devi lasciare tutto questo alle spalle e non guardare, ma solo chiudere gli occhi e destare in te un altro volto al posto di quello vecchio, un volto che tutti possiedono, ma che pochi usano…
Benvenuti all’ascesa verso il Parnaso !
Enrico Gatti