Il testo dell'intervento di Enrico Gatti a "Olandiamo in Veneto", Padova 19.05.2014
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Nel 1978 decisi di specializzarmi nel campo del violino barocco. La mia idea era quella di dedicare un certo periodo della mia vita a questo studio particolare, e poi riprendere a suonare anche il violino moderno per poter in seguito eseguire tutto il repertorio violinistico. Il fatto è che, intrapresi gli studi specialistici, non solo la cosa mi piacque tanto, ma sentii anche che più approfondivo questo lavoro e più le questioni emergevano e si presentavano alla mia coscienza di musicista. Così mi resi presto conto che per poter interpretare in modo veramente libero, e cioè non condizionato da mancanza di conoscenza e preparazione - elemento questo che di solito, a mio giudizio, prelude alle interpretazioni più mediocri oppure a quelle più sfrenate in senso individualista - che era necessario proseguire la specializzazione in quanto gli argomenti e le questioni si ramificavano continuamente e diventava assai complicato seguire tutti i possibili percorsi. Ci volevano insomma molta pazienza ed un tempo lunghissimo (la passione grande c'era), ma era quella in fondo la strada più corta, la più efficace: quella che non cerca le scorciatoie ma tenta di percorrere tutte le vie della ricerca.
Così mi misi in quella strada in attesa di terminare i miei studi; vi debbo quindi confessare di trovarmi un po' smarrito oggi, che mi si chiede di venire qui a parlare della musica antica in Italia quando io ancora i miei studi non li ho terminati e sto ancora perfezionandomi.
Infatti da allora non sono più stato capace di riprendere il violino contemporaneo in quanto avevo troppe cose da cercare, verificare e sperimentare nel campo di quella letteratura compresa tra la fine del XVI e l'inizio del XIX secolo.
Il mio primissimo insegnante fu Luigi Rovighi, violinista bolognese presso il Teatro Comunale ed insegnante al conservatorio di Bologna. Rovighi svolse approfondite ricerche e coniò per primo la famosa locuzione prassi esecutiva, di cui - come sempre succede in Italia - si impadronirono poi proprio quelli che quella cosiddetta prassi non la mettevano in pratica. Fondamentale fu un suo articolo apparso sulla Rivista Italiana di Musicologia nel 1973 che, oltre alle numerose informazioni sugli stili di esecuzione in uso nel passato, riportava una copiosa e fondamentale bibliografia in un'epoca in cui la rete era ben lungi dal nascere e quindi tutti i testi bisognava andarseli a cercare e studiare uno per uno con certosina pazienza e dedizione, scrivendo alle biblioteche, ordinando microfilms, attendendo mesi e mesi, spendendo molti soldi e dovendo leggere tutte le fonti nelle loro lingue originali. Rovighi, certo musico più teorico che pratico in campo barocco, generosamente mi spalancò le porte della sua eccezionale biblioteca, mi fece capire la fondamentale importanza dell'accesso diretto alle fonti originali, il fatto di leggerle in modo integrale nel loro contesto completo piuttosto che ingoiarne pillole scelte in modo decontestualizzato: le scorciatoie non portavano ad una coscienza compiuta e autonoma. Il mio primo maestro bolognese si muoveva in un ambiente in cui agivano altre importanti figure dell'epoca; fra loro vorrei ricordare Sergio Vartolo, poliedrico artista eclettico e pirotecnico, capace di passare dalle tastiere al canto, alla recitazione e alla regia, poi Giorgio Pacchioni, grandissimo talento forse non supportato da un carattere che gli permettesse una facile interazione con i suoi colleghi, all'epoca indeciso fra il flauto dolce, il traverso, la viola da gamba, il cornetto, il trombone, la direzione di coro, lo studio del contrappunto e la composizione: un po' come le figure degli antichi musicisti, ben lontani dall'idea del "monostrumentista" specializzato. Con tutti questi musicisti lavorai a più riprese e cercai di assorbirne i princìpi che informavano la loro arte: arte che era il frutto di elaborazioni personali e quindi assai originale ed unica, non formatasi in seno ad una scuola, ad un movimento coerente ed organico o ad un gruppo preciso ed univoco.
In generale l'opinione che tutti loro avevano di quanto nel frattempo stava succedendo nei Paesi Bassi ed in Belgio era alquanto negativa: criticavano spesso certi atteggiamenti interpretativi nei confronti del repertorio barocco che si erano sviluppati del Nord Europa in quanto "non autenticamente filologici", a loro modo di vedere. Ad esempio si rimproverava agli strumentisti ad arco delle Fiandre e dell'Olanda l'uso di un vibrato continuo che si trovava in contrasto con la schiacciante maggioranza delle fonti antiche e contro cui invece questi musicisti italiani si ribellavano; altro esempio poteva essere la mancata applicazione di certe arcate che si ritrovavano chiaramente prescritte dai trattati del '600 (la "Bibbia"): da noi insomma si voleva fare una "rivoluzione" integrale, senza compromessi e non annacquata, ma in effetti quello che si poteva fare era solo sperimentazione, perché questa nuova "scienza" applicata all'interpretazione della musica era troppo giovane ed aveva bisogno di esperienza vissuta sul campo pratico.
I miei primi esordi in campo concertistico con questi musicisti italiani, quando io ero ancora un ragazzo pieno di belle intenzioni ma senza alcuna esperienza, ebbero luogo in un'Italia assai scettica nei confronti di questo nuovo filone di ricerca: mi ricordo ad esempio un concerto con l'ensemble diretto da Giorgio Pacchioni cui assistette il critico Michelangelo Zurletti di "Repubblica", un giornale che in fondo avrebbe dovuto rappresentare le correnti di pensiero progressiste. Nella sua recensione il pur ottimo Zurletti disse che "comunque gli strumenti originali - nell'interpretazione della musica del passato - erano da considerarsi un lusso, e non una necessità": alla faccia della modernità. Quanto furono in ritardo sugli avvenimenti che si stavano producendo in tutta Europa - e non solo - tutti coloro che scrivevano su giornali e riviste! Quanto furono in ritardo i conservatori italiani, che solo da pochi anni sono riusciti ad introdurre regolari cattedre di strumenti antichi ! (non intendo qui le solite cattedre di clavicembalo, viola da gamba, liuto e flauto dolce, gli strumenti "altri", quelli che non danno fastidio ai tradizionalisti perché non minano le loro certezze in tema di interpretazione: intendo invece le cattedre di Violino barocco, Violoncello barocco, Flauto traversiere, Oboe, Fagotto, Tromba, Canto ecc…).
Chi non sembrava in ritardo era invece il pubblico, che gremiva numerosissimo le sale gloriose e le chiese antiche in cui si svolgevano i concerti: ho ricordi di stagioni a "Settembre Musica" di Torino, di "Musica e Poesia a San Maurizio" di Milano oppure del "Festival del Clavicembalo di Roma in cui era difficile trovare posto fra il pubblico: per noi musicisti ciò era veramente gratificante e, cosa assai diversa da quella che generalmente accade al giorno d'oggi, l'età media degli ascoltatori era molto giovane. Il pubblico sembrava gradire altamente e anche comprendere le ragioni di un'interpretazione rinfrescata e vivificata dagli ultimi ritrovati della ricerca musicale ed apprezzava quella musica che parlava in modo immediato e piuttosto diretto. Ma le istituzioni concertistiche classiche italiane rimanevano molto conservatrici e per quanto riguarda la musica antica si affidavano esclusivamente agli stranieri, ritenendo che questo terreno dovesse essere esclusivo appannaggio delle loro interpretazioni: gli italiani non avevano ancora autorevolezza per imporre una loro visione musicale ed il risultato era che si assisteva ad un continuo ripetersi di tournée dei gruppi più famosi che arrivavano da Olanda, Belgio, Inghilterra, Francia e Germania. La mitica signora Nordholt, addetta culturale dell'ambasciata d'Olanda, organizzò una serie sterminata di concerti che portarono a ripetizione in tutta Italia il meglio della musica antica proveniente dai paesi bassi e dalle Fiandre.
Nel frattempo io avevo iniziato a seguire i miei primi corsi con docenti stranieri: da noi in Italia per molti anni non sono esistiti corsi regolari di musica antica nelle scuole pubbliche, e quindi la formazione si doveva obbligatoriamente svolgere nell'ambito dei corsi estivi o di altri seminari (quelli che oggi chiamiamo "Master Class").
Il primo di essi fu a Roma, organizzato dalla Società Italiana del Flauto Dolce diretta da Giancarlo Rostirolla, ed era tenuto dal maestro olandese Jaap Schroeder. Conoscevo il maestro tramite i numerosi dischi che aveva realizzato con la Philips Seon: aveva collaborato con Frans Brüggen e con Stanley Hoogland prima di fondare una sua propria orchestra ed un quartetto d'archi (il primo con strumenti d'epoca) e le sue registrazioni di Mozart ed Haydn mi avevano completamente cambiato il quadro sonoro di riferimento nei confronti del repertorio classico.
Quel corso presso la Sala Casella della Filarmonica Romana cambiò la mia vita perché ne uscii determinato a specializzarmi in violino barocco. Seguii poi altri corsi: a Padova con Eduard Melkus (corso organizzato dai Solisti Veneti), conosciuto attraverso le numerose registrazioni con Archiv Produktion, a Pamparato con Luigi Rovighi, ad Urbino con vari altri insegnanti, a Roma con Lucy van Dael e poi un gran numero di corsi con Chiara Banchini, con la quale poi andai a studiare regolarmente in Svizzera, il che mi permise di cambiare ambiente e gettare uno sguardo altrove. Dopo il diploma a Genève decisi di andare alla fonte e studiare con quello che era stato il maestro di Chiara Banchini: Sigiswald Kuijken. Mi ricordo che, subito prima di partire per l'Olanda, feci un concerto a Parigi per Radio France. Un famoso conduttore radiofonico dell'epoca - Jacques Merlet, grande divulgatore della musica antica in Francia - mi aveva ascoltato in concerto a Roma insieme a Paolo Pandolfo e Rinaldo Alessandrini e, nonostante fossimo giovanissimi, era rimasto entusiasta e ci aveva invitato a Parigi. Dopo il concerto, intervistandomi, Merlet mi chiese per quale motivo io volessi andare a studiare con Kuijken, visto che avevo già una mia personalità musicale delineata e in Olanda avrei invece corso il rischio di essere indottrinato e cambiato a somiglianza del mio futuro maestro, cosa che secondo lui stava già avvenendo con diversi giovani violinisti. Io gli risposi che sentivo il bisogno di andare là dove la ricerca era partita ed era stata fatta, dove si erano sviluppate importanti esperienze e sperimentazioni con i "nuovi" strumenti antichi e le loro tecniche; che ignorare questi elementi e pretendere di bypassarli sarebbe stato pretenzioso ed arrogante da parte mia, mentre mi appariva essenziale cercare di incorporare in me per quanto possibile il portato di quella ricerca. Ritengo che non si vada da un maestro per imparare ad imitarlo, per cercare di fare quello che fa lui: in arte nulla è esattamente riproducibile, specialmente se a produrre gli originali sono artisti di grande personalità e carattere. Sigiswald aveva lavorato duramente per ricostruire quella che lui pensava essere la tecnica originale del periodo centrale del barocco, aveva una formazione approfondita che andava dalla musica rinascimentale (suonava infatti anche la viola da gamba) fino al repertorio contemporaneo e parlava cinque o sei lingue (dunque aveva letto le fonti nelle loro lingue originali), era una figura di enorme carisma e già di grande esperienza. Per me era chiaro che il suo approccio musicale non corrispondesse con le mie premesse culturali e che la strada segnata per me dovesse necessariamente essere diversa, dunque ho affrontato quel periodo di studio con la chiara coscienza delle nostre differenze culturali e musicali: ma proprio ciò mi ha permesso di apprezzarne al massimo le sconfinate qualità umane e artistiche, arricchendo il mio vocabolario e la mia coscienza critica di riflessioni, esperienze e di procedimenti analitici razionali. Si va infatti da un insegnante non per copiare il suo modo di lavorare, ma per apprendere da lui una disciplina di lavoro da applicare in seguito alla propria individualità di artista. Questo è ciò che mi riproponevo e che spero di avere realizzato. A quell'epoca il governo olandese metteva in palio alcune borse di studio per il Koninklijk Conservatorium dell'Aia: feci il concorso e lo vinsi, così potei studiare grazie al sostegno dell'Olanda nei confronti degli studenti provenienti da altri paesi.
Nel frattempo la calata sistematica in Italia da parte dei musicisti stranieri, i soli cui fosse permesso di suonare musica antica nelle importanti stagioni concertistiche, creò da un lato una specie di "modello standard" da seguire e da imitare (e ci furono vari musicisti che lo fecero), dall'altro lato una reazione che provocò atteggiamenti di rifiuto da parte di alcuni musicisti e la conseguente proposta di nuovi modelli che avrebbero dovuto fare breccia nel grande pubblico grazie al loro "sound" alternativo: si cercava a gran voce una "diversità" dal modello del nord Europa. Tale "sound" era basato su di un atteggiamento interpretativo altamente individuale e tendenzialmente spregiudicato ed aggressivo, sulla velocità sfrenata e su articolazioni estreme: si voleva stupire ed affermare certi tratti che venivano orgogliosamente definiti "latini"; di fatto a me facevano pensare ad una specie di "neo-futurismo" piuttosto che ad una tendenza verso la modernità. Non mi sentirei fino in fondo di chiamare "culturale" un tale tipo di reazione, che a mio modo di vedere era viziata da un malcelato complesso di inferiorità e da un disperato desiderio di emergere a tutti i costi, anche a scapito del rispetto che un interprete dovrebbe sempre coltivare nei confronti del repertorio che affronta. Quello che mi sembrava chiaro era che i vari musicisti italiani artefici - in diversi modi - di questa svolta erano per la maggior parte degli autodidatti che avevano rifiutato il confronto con i maestri del nord Europa e si erano inventati un proprio stile autoreferenziale, molto spesso senza nemmeno utilizzare autentici strumenti d'epoca ma continuando il loro percorso sugli strumenti moderni in altro modo. Questa ambiguità di fondo e la superficialità di questo approccio, a mio modo di vedere, non sono stati colti appieno né dalla critica né dal grande pubblico (il quale pubblico avrebbe dovuto forse essere educato ad una corretta comprensione dai responsabili artistici degli enti italiani), che hanno seguito questa corrente come se si trattasse di una evoluzione stilistica. La cosa più macroscopica che salti agli occhi - anzi, alle orecchie - è che nella stragrande maggioranza dei casi in queste interpretazioni sono stati lanciati dei messaggi forti, dai contorni estremamente vividi, ma sono state spesso ignorate le più fondamentali regole che si possano trovare nelle fonti storiche: si è trattato insomma di un avvicinare la musica alla nostra epoca allo scopo di renderla "attuale" e facilmente riconoscibile per il pubblico di oggi piuttosto che tentare di portare il gusto del pubblico d'oggi a comprendere il contesto dell'opera d'arte del passato. Si cercava artificialmente quella conclamata "diversità" che doveva fare la differenza e la novità, senza sapere che la diversità vera non la si cerca attivamente ma - se c'è - la si trova in sé stessi. Capite bene che un tale atteggiamento nell'ambito - ad esempio - delle arti figurative o della letteratura antica, relativo ai criteri con cui le opere del passato debbano essere restaurate e presentate poi al pubblico, verrebbe considerato ampiamente superato e non attuale. Ma l'ambito musicale fa quasi sempre eccezione, e troppo spesso purtroppo in Italia abbiamo dovuto sentir dividere gli esecutori fra "filologi" e "musicisti", come se un musicista veramente moderno e al passo coi tempi non avesse il dovere morale di presentarsi dinanzi al pubblico in una situazione di preparazione la più completa possibile, tenendo conto di tutto quello che la ricerca contemporanea è in grado di fornirgli. Il fatto è che un cosiddetto "filologo" della musica deve lavorare molto di più di un cosiddetto semplice "musicista" (cioè uno che suona le note senza compiere ricerca approfondita su quello che interpreta), non essendo un semplice manovale dello strumento, ma un "medium" che accetta la responsabilità di veicolare un messaggio, quello del compositore e della sua cultura, arricchendolo - certamente - del proprio apporto personale. Si deve chiarire una volta per tutte che la filologia non è da identificare con l'interpretazione, ma la filologia deve precedere l'interpretazione e costituirne la corretta premessa in un contesto il più moderno, e quindi aggiornato, possibile. Qui si deve decidere se sia più importante il compositore o l'interprete. Io non ho mai avuto dubbi in proposito: non ho mai preteso di mettermi in concorrenza con Bach, Mozart, Corelli o Vivaldi, ma credo nella possibilità di tradurre correttamente il loro linguaggio con uno stile personale.
Sappiamo che ogni epoca ha avuto i suoi abbagli e che in secoli lontani grandi geni sono stati stroncati e musicisti di mediocre levatura osannati, dunque è normale che le mode del momento abbiano il sopravvento: dopotutto viviamo in un'epoca televisiva e multimediale, dunque a farla da padrone è il senso dello spettacolo esteriore (lo "show", come spesso gli americani chiamano il concerto). Può darsi che nei prossimi decenni ritorneremo a considerare quanto si è prodotto in Italia dagli anni '90 in poi nel campo della musica antica e che valuteremo quanto possa esserne considerato ancora attuale: perché il moderno è un qualcosa che rimane sempre attuale e non nasce da un bisogno puramente contingente.
Mentre nel nostro Belpaese era dunque in atto una specie di "controrivoluzione" auto-celebrativa dello spirito italiano, che era nella realtà assai gradita agli strumentisti moderni in quanto si svolgeva praticamente quasi esclusivamente attraverso l'uso di questi e riavvicinava la pratica contemporanea al repertorio antico - con alcuni accorgimenti che creavano una nuova "maniera" - io appartenevo alla schiera dei cosiddetti "cervelli" italiani (se mi viene concesso il termine) che lavoravano all'estero. Destino ingrato a volte, ma che mi ha regalato l'opportunità di conoscere da vicino e di interagire con personaggi che per me sono stati fonte di grande ispirazione e modelli di etica interpretativa. Fra di essi l'incontro con Gustav Leonhardt è stato assai emozionante: dopo aver eseguito con lui molte volte la Messa in si minore di Bach (ed averla registrata) ho avuto la fortuna di stargli vicino in occasione di diversi altri progetti con una orchestra italiana di cui ero il leader. Provare con lui, viaggiare, cenare insieme e parlare a lungo (non solo di musica, ma anche di pittura, di motori Ferrari - di cui era un grande appassionato), poter visitare la sua incredibile casa-museo guidato dalle sue osservazioni e suonare sotto la sua direzione sono state esperienze uniche che sempre mi porterò dentro insieme al suo modo di fare musica.
Quello che unisce i più grandi musicisti che ho avuto la fortuna di poter avvicinare (come Leonhardt ed i fratelli Kuijken) è che, pur nel loro innegabile carisma, sempre mantengono una naturale umiltà e semplicità: non hanno nulla da dimostrare a nessuno, perché - semplicemente - sono loro stessi.
In quegli anni, mentre ero studente al conservatorio Reale dell'Aia, ricevetti la chiamata da parte dell'Orchestra del XVIII secolo, fondata e diretta da Frans Brüggen, nella persona del suo leader Lucy van Dael. Ma io ero andato là per studiare, non per fare concerti: non mi sentivo ancora pronto ad affrontare il repertorio classico, e poi stavo usufruendo di una borsa di studio del governo olandese e dovevo dimostrare di seguire le lezioni e di non assentarmi dalla scuola per lunghi periodi, quelli delle tournée. A distanza di tempo, due volte fui chiamato e due volte rifiutai. Detto oggi così ciò può sembrare assurdo e irragionevole, ma all'epoca non mi costò un grande sacrificio: stavo perseguendo una mia strada e avevo delle motivazioni fortissime: per me lo studio, la ricerca e la mia formazione più completa possibile venivano prima di tutto, anche prima del lavoro, del prestigio e della carriera.
Se gli italiani non credevano molto negli italiani che facevano musica antica su strumenti originali, in Italia c'era un olandese che ci dava invece fiducia: il nome di questa persona è Kees Boeke, che sono felice di ritrovare a questo tavolo. Kees si era trasferito in Toscana ed aveva organizzato dei corsi monografici su alcuni soggetti specifici in modo di poter approfondire il lavoro su determinati compositori o stili musicali e mi chiamò come insegnante. L'atmosfera in cui si svolsero questi corsi fu veramente unica: un concentrato di intensità ed umanità che non potrò mai dimenticare.
Se ci sono degli strumentisti che suonano su degli antichi strumenti riportati alla loro costruzione originaria, ci debbono per forza essere dei liutai che si occupino di queste delicate operazioni e che sappiano esattamente come fare: gli strumenti ad arco vanno aperti, sostituite la barre armoniche interne e le anime di moderne dimensioni con altre conformi alle misure rilevate negli originali o - ad esempio - ricavate dagli appunti di Stradivari, rifatti i ponticelli, i manici, le tastiere, cordiere ed i piroli. L'Olanda fu anche il paese nel quale si trovarono a lavorare i primi e più grandi specialisti di questi restauri. Così il mio violino antico fu riconvertito ad Amsterdam da Fred Lindeman, che aveva già rivisitato gli strumenti di Sigiswald Kuijken, Lucy van Dael, Jaap Schroeder, Anner Bijlsma, Chiara Banchini e molti altri ancora. E negli anni a venire, quando tornai a vivere in Italia, il mio liutaio di riferimento divenne un ex allievo di Lindeman: Matteo Heyligers, un altro olandese che si è stabilito a Cremona da più di trenta anni.
Il mio rapporto con i Paesi Bassi continua felicemente a distanza di molto tempo: dal 1999 sono stato invitato ad insegnare nella scuola in cui ho studiato: Il Conservatorio Reale dell'Aia, dove esiste un dipartimento di musica antica di storica fondazione che attira studenti da ogni parte del mondo e che continua ad essere uno straordinario trampolino di lancio per tanti giovani musicisti che vogliano specializzarsi in questo campo. Il Conservatorio tiene molto a questo suo speciale settore che - oltre ad avere un largo staff di insegnanti ed un'ampia offerta formativa - organizza ogni anno numerosissimi progetti aventi come soggetto i più disparati autori e stili compositivi dei secoli XVI, XVII e XVIII.
Negli ultimi anni finalmente anche la scuola italiana si è aperta ufficialmente all'insegnamento degli strumenti antichi e le cattedre di Violino barocco, Violoncello barocco, Oboe, Fagotto, Flauto traversiere, Tromba e Canto barocco hanno fatto la loro apparizione nei conservatori italiani: i giovani che desiderano venire formati in questi campi hanno ora anche da noi la possibilità di studiare in modo regolare ed acquisire lauree di primo e secondo livello, frequentando contemporaneamente una serie di discipline complementari che li portano ad una formazione professionale di buona levatura, anche se forse non ancora paragonabile a quella che si può acquisire in conservatori come il Royal Conservatoire dell'Aia, dove questi insegnamenti esistono e sono stati sperimentati con successo da almeno 40 anni.
I nostri conservatòri tendono in gran parte ad essere ancora assai conservatóri (scusate il gioco di parole) e sono spesso paralizzati da un apparato burocratico che rende difficoltose le innovazioni; comunque la generazione che ha combattuto per il cambiamento dell'atteggiamento interpretativo nei confronti della musica del passato si batte ancora per arrivare ad un effettivo riconoscimento ufficiale di questo lavoro nelle istituzioni pubbliche: siamo stati in origine gli "extraparlamentari" della musica, ora siamo dentro le istituzioni e cerchiamo di progettare la scuola del futuro, quella che ci potrà essere fra 10-20 anni, e siamo ormai pronti a passare il testimone ai nostri allievi, quei giovani che vivono con passione la musica antica e che rispetto a noi sono molto avvantaggiati dal punto di vista della reperibilità delle fonti e dei testi per la ricerca, ma al tempo stesso si trovano ad operare in un contesto in cui tutta la musica classica in generale è drammaticamente marginalizzata.
In conclusione vorrei dire che le premesse del movimento della musica antica con strumenti d'epoca in Italia parlavano della necessità di un rinnovamento radicale dell'approccio del musicista, con il rifiuto di quel "comune denominatore" che caratterizzava le esecuzioni moderne. Dopo alcuni anni di sperimentazioni e critiche, il riflusso, l'incrocio con l'estetica contemporanea del suono e la ricerca del consenso sul piano del grande mercato popolare hanno portato a molti compromessi vissuti da un gran numero di esecutori sia per quanto riguarda gli strumenti utilizzati che l'uso che di essi viene fatto. Tuttavia è innegabile che la necessità di un approccio nuovo, più rispettoso della musica del passato e del contesto culturale in cui essa nacque, si sia imposta all'attenzione del pubblico, della critica e delle istituzioni. Non siamo ancora arrivati: probabilmente non arriveremo mai, per fortuna. Proseguiamo dunque, e cerchiamo di progredire nella qualità perché c'è ancora molto da fare e molto da scoprire.
Mi piace terminare con una frase di Glenn Gould:
"Lo scopo dell'arte non è quello di realizzare una momentanea scarica di adrenalina, ma piuttosto la graduale, costante costruzione durante tutta la vita di uno stato di meraviglia e di serenità".