Testo scritto nel 2004 per il programma di sala di un concerto con le sonate di Koethen
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Nella vita di un musicista l’opera di J.S.Bach può venire percepita e vissuta – nell’arco delle varie fasi di un’esistenza – in tante maniere differenti: dall’ammirazione totalmente incondizionata ed irrazionale dell’adolescenza che sconfina nella mitizzazione, all’apprezzamento più consapevolmente analitico di un musico che sia in età tale da potersi avvicinare alla comprensione dei tracciati contrappuntistici, dei misteri numerico-simbolici e delle griglie armoniche; dalla stanchezza e dalla ripulsa che la continua, mai attenuata, spessa profondità di questo intenso compositore, ed il suo modo di procedere sviluppando e complicando vieppiù (ma anche ripetendosi, come solo i grandi possono permettersi, appunto perché possiedono materiali e tecniche da grandi) sono in grado di ingenerare in qualche musicista che si trovi a trascorrere un periodo alla ricerca di limpida leggerezza, di linearità ed immediatezza di comunicazione e non sia in grado di sopportare più di dieci minuti consecutivi di complicazioni – che in certi momenti della vita sono anche inutili – ad un atteggiamento, che può somigliare ad una sorta d’abbandono confidente e totale che nasce e si sviluppa in seguito, figlio dell’aver vissuto proprio tutte quelle precedenti fasi, nato quando si vive quella stagione della vita che inclina (così dicono, ma sarà? – alcuni indizi inducono a dubitarne) alla maturità.
Niente paura: avrete capito che questo era solo un piccolo test, e se siete riusciti ad arrivare in fondo al precedente periodo senza perdervi, allora vuol dire che siete sicuramente in grado di seguire i periodi musicali di Bach padre senza bisogno della guida all’ascolto…
Il ciclo delle sei sonate “à Cembalo [con]certato è Violino solo col Basso per Viola da gamba accompagnata se piace” fu composto durante il periodo che Bach passò a Köthen – e cioè dalla fine del 1717 ai primi mesi del 1723 – periodo invero assai centrato sul clavicembalo e comunque generalmente molto prolifico sul versante della musica strumentale: ricordiamo, fra l’altro, i Concerti Brandeburghesi. Tuttavia alcune di queste sonate subirono revisioni in epoche più tarde, durante gli anni in cui il compositore era in servizio a Lipsia (intorno al 1725-1730 prima e poi nel 1749); questa rielaborazione – di cui non conosciamo i reali motivi – riguardò solo marginalmente la sonata n° 5 ed in modo più corposo la n° 6, che ebbe sostituiti alcuni dei suoi movimenti originari, acquisendo una forma speculare grazie all’inserimento di un assolo per cembalo al centro della composizione. La sesta sonata, costituita nella sua versione finale da cinque movimenti, venne così a configurarsi in modo assai differente dalle altre sonate, tutte regolarmente composte dai quattro andamenti canonici “all’italiana” (lento-veloce-lento-veloce).
Sebbene alcune delle fonti originali di questo ciclo di sei composizioni riportino nel titolo la possibilità dell’opzione di raddoppiare la parte della mano sinistra del cembalo col rinforzo di una viola da gamba, questa non appare come la soluzione ideale, e non solo in quanto l’indicazione non è originale di Bach, bensì di mano posteriore: il fatto è che la scrittura di queste sonate si avvicina assai a quella delle triosonate per organo (che si suppone composte a Lipsia fra il 1727 ed il 1735), e si presenta con tutte le caratteristiche della sonata a tre. Tutti i movimenti rapidi constano di una rigorosa struttura simile a quella di una invenzione a tre voci con contrappunti intercambiabili. Le due voci soprane sono affidate al violino ed alla mano destra del clavicembalo, mentre quella bassa viene ovviamente affidata alla mano sinistra. Le tre voci dialogano ad armi pari, si intersecano e si scambiano in un certamen senza tregua, come si addice alla migliore arte contrappuntistica del genio di Eisenach, con una naturale leggera prevalenza tematica nelle parti acute, dovendo necessariamente la voce grave assumere a volte le semplici funzioni di basso portante, e più raramente di un semplice basso continuo numerato. E proprio in questa interscambiabilità, da Bach esplorata in lungo ed in largo, secondo i tracciati di tutte le sue possibili variabili, consiste uno dei maggiori pregi ed al tempo stesso una delle maggiori difficoltà dell’opera. Per permettere l’intelligibilità della scrittura il violino è obbligato a smettere i suoi panni di strumento cantante a suoni tenuti (o vibrati…) e farsi terza mano del tastierista, a mimetizzare lo strofinio delle proprie corde con il pizzicare del cembalo; mentre la tastiera deve superare i limiti percussivi del suono per liberare un canto orizzontale in cui rincorrersi con lo strumento ad arco: così vuole e comanda la sonata in trio, e sarebbe forse fuor di luogo mettere a repentaglio un equilibrio di siffatta difficile riuscita (e fra due strumenti così dissimili) tramite il raddoppio – da parte della viola da gamba – di una delle tre parti, chiudendo in tal modo la mano destra del cembalista nella morsa di due strumenti ad arco che difficilmente le concederebbero quell’agio di venire intesa alla distanza al pari delle altre due voci. Simbiosi, quindi, di due soli unici strumenti musicali che hanno nel proprio patrimonio genetico una sostanziale differenza: la ricerca di una chimerica intonazione puramente “naturale” nel violino, ed il peccato originale costituito dalla necessità di un temperamento (e cioè di un compromesso) nel clavicembalo. Tale questione fu naturalmente in vario modo affrontata nell’epoca gloriosa del nostro compositore, ed in vario modo (ossia con differenti sorte di compromessi) risolta: qui da noi una di queste viene presentata, nella forma del temperamento n° 3 fra quelli elaborati da Andreas Werckmeister (1645-1706), che oltre ad essere grande teorico e valente organista fu egli stesso compositore. La necessità di questo tipo di temperamento è resa tanto più chiara dal piano ciclico che contraddistingue la scelta delle sei tonalità: come per le Sonate e Partite à Violino solo, Bach ha seguito un ordine preciso nello scegliere le tonalità d’impianto. Quest’ordine è il seguente (in maiuscolo le tonalità maggiori):
si – LA – MI – do – fa -SOL
ed evidenzia una costruzione speculare che contiene al suo interno un intervallo di terza incorniciato da due quarte, a loro volta contenute entro due seconde che si trovano agli estremi esterni.
Simbiosi – dicevamo poc’anzi– di due strumenti, ma anche fra i due esecutori, che solo una annosa (in questo caso pluri-decennale) complicità permette.
Queste sonate a tre per un duo – una specie di «prendi 3, paghi 2» – dalla difficoltà non appariscente, costringono in realtà le cellule grigie ad un autentico tour-de-force di concentrazione. Si prenda, ad esempio, una qualsiasi di queste fughe: giunti alla prima importante cadenza che individua generalmente il termine del primo terzo del brano ci sarebbe già bisogno di uno scalo tecnico ai box, ma se la giornata è una di quelle che girano storte questo non è tutto: mentre suonate infatti disgraziatamente vi viene in mente che c’è la rata del mutuo in scadenza e che vostro figlio deve mettere l’apparecchio ai denti… lo sviluppo modulante della parte intermedia appare di conseguenza procelloso assai e quanto mai labirintico: “non senza fatica si giunge al fine”, quando il filo d’Arianna della cadenza finale si scioglie in un trillo liberatorio insperato e impensabile fino a pochi secondi prima.
Di questo ciclo si può tranquillamente parlare come di un vero compendio dell’ars componendi, vi trovano posto infatti tutta una miriade di tipologie che Bach ha tratto dall’analisi dell’intera esperienza musicale europea: andamenti nello stile del concerto italiano (primo movimento della VI sonata), movimenti solistici per il violino come adagi diminuiti all’italiana (movimento d’apertura della III sonata), siciliane (movimento d’apertura della IV sonata), canoni (movimenti lenti della II sonata), reminiscenze di “stile antico” che fanno pensare al mottetto “Komm, Jesu, komm!” BWV 229 (scrittura cembalistica a tre o quattro voci nel primo movimento della V sonata), duetti (quarto movimento della VI sonata), adagi puntati in stile francese (secondo movimento della VI sonata), fino alla sperimentazione dell’inversione dei ruoli, col violino alla realizzazione del basso continuo ed il cembalo che “improvvisa” figure libere (terzo movimento della V sonata). Affermava Johann Joachim Quantz: “Vengono non solo dai Tedeschi presentemente abbracciate tanto le Opere, quanto le composizioni per gl’instrumenti composte alla Italiana, ma ancora dai Spagnuoli, dai Portughesi, dagl’Inglesi, dalli Polacchi, e dai Russi. Il maggior numero delle nazioni della Europa, e principalmente li Tedeschi fanno molto capitale di tutto quello, che trovassi di buono nei Francesi”…“Allorache si ha cognizione di fare una scelta discreta di quello, che havvi di migliore nel gusto della Musica di molte nazioni, ne nasce un gusto vario, il quale chiamarsi potrebbe assai bene senza offendere la modestia: il gusto Tedesco” (Versuch einer Anweisung die Flöte traversiere zu spielen… Berlin 1752, capitolo XVIII, paragrafi 73 e 87 nella traduzione italiana fatta eseguire a cura di Padre Martini nel XVIII secolo). Messa a parte la fierezza esibita da Quantz nell’affermare che in Germania si stava realizzando l’elaborazione di uno stile sovranazionale (il cosiddetto Vermischter Geschmack), bisogna constatare che effettivamente nelle sue opere J.S.Bach fece tesoro di tutta la cultura musicale europea precedente e di quella a lui coeva, ma tuttavia in questa occasione elaborò una forma di nuova concezione: la sonata concertante per strumento a tastiera e strumento melodico. Tale invenzione avrebbe riscosso in seguito l’apprezzamento di importanti compositori che a loro volta coltivarono e svilupparono questo genere ciascuno secondo gli stili consoni alla propria generazione e al proprio paese: Carl Philipp Emanuel Bach (dal 1731 al 1781), Mondonville (1734), Rameau (1741), Giardini (1751), Schobert (dal 1761 al 1767), Johann Christian Bach (dal 1764 al 1781), Boccherini (1768), fino a giungere alle ben conosciute sonate per fortepiano e violino di W.A.Mozart e L.van Beethoven.
Altra storia è quella riguardante le due sonate di Johann Sebastian per violino e basso continuo, anch’esse composte a Köthen intorno al 1720, e rispondenti al modello italiano della sonata da chiesa (quella in sol maggiore BWV 1021) o a quello più francesizzante della suite (sonata in mi minore BWV 1023). In questo caso non siamo in presenza di sonate a tre, caratterizzate da dialogo polifonico, ma di quello che all’inizio del XVIII secolo veniva definito un “solo”, in cui il violino viene sostenuto ed accompagnato dal basso continuo del cembalo. Per la verità, specie nei movimenti rapidi, il basso presenta spesso figure imitative che gareggiano ad armi pari con la voce superiore, anche se non mancano movimenti in cui il violino viene impiegato in modo apertamente ed inequivocabilmente solistico (come la toccata d’apertura della sonata in mi minore BWV 1023); è impossibile non notare, tuttavia, che anche quando Bach ha affidato al cembalo la “sola” funzione del basso continuo si è premurato di esprimere abbondantemente nonché dettagliatamente il suo complesso pensiero armonico con profusione di metaforiche cifre per la realizzazione del basso (cosa che un italiano mai avrebbe fatto in maniera così copiosa): a volte viene dato pensare che l’autore avrebbe forse potuto esprimersi più rapidamente notando direttamente le note stesse sul pentagramma, ma la sonata “a solo” veniva scritta utilizzando due soli righi musicali.
Per un musicista, dopo varie letture di “Frau Musika” e di tutta la letteratura consimile, dopo aver navigato in mezzo a trattati che analizzano i numeri in Bach e le loro relazioni con la simbologia e la cabbala, perfino anche dopo essersi studiati saggi monumentali sull’uso delle articolazioni ed il loro posizionamento nelle fonti primarie delle opere bachiane, non rimane altro da fare che inchinarsi di fronte al mistero, rinunciare: rinunciare a capire come sia possibile saper elaborare al massimo un’idea ed allo stesso tempo riuscire a comunicarla a tutti, essere così grandi e così universali, così per sempre, e per tutti. Ci resta solamente la possibilità di accettare: accettare ed essere felici che tanto ben di Dio sia potuto arrivare fino a noi per darci questo senso di pienezza e renderci così felici. Parafrasando uno scritto di Gesualdo Bufalino si potrebbe dire che “si suona anche per dimenticare, per rendere inoffensivo il dolore, biodegradarlo, come si fa coi veleni della chimica. Può essere una vernice, la musica, che ci anodizzi i sentimenti e li protegga dalle salsedini della vita”. In questo senso la musica del vecchio Bach è la più completa esplorazione esistente in musica di ogni possibile gamma di sentimenti ed affetti umani, quindi una miniera inesauribile per chiunque voglia prendersi cura dei propri sentimenti, della loro comprensione e del proprio autocontrollo:“aus der Seele muß man spielen, nicht wie ein abgerichteter Vogel” [“si deve suonare con l’anima, e non come un uccello ammaestrato”] (Carl Philipp Emanuel Bach).
Ci sono, è vero, i problemi relativi al fatto che la sua scrittura se ne infischi bellamente di questioni tecniche e che di certo più che spesso non faciliti il percorso dell’esecutore, anzi lo metta alla prova a tutte le latitudini della strumentalità, ma voi state pur tranquilli: queste sono patate bollenti che riguardano unicamente le appendici tattili di noi musicisti.
Dopo aver passato tanti anni nell’esplorazione di compositori “minori”, che minori non sono, e che anzi rappresentano l’essenza della cultura musicale del passato in quanto ne incarnano la “normalità”, la “routine” giornaliera (i tipi come Bach e Mozart non possono certo venir considerati normali: anzi sono proprio le eccezioni che confermano le regole, coloro che riescono col loro gesto, molto più e molto meglio delle direttive UE, ad unificare l’Europa, inglobando nel loro personalissimo e profondo linguaggio tutti gli elementi essenziali della cultura musicale del nostro grande paese), è un profondo piacere immergersi nella musica di Bach padre, come in un grande bagno ristoratore. E’ come tornare da papà, senza per questo dover sostenere la parte del figliol prodigo. Confidarsi a lui, lasciarsi andare, annullarsi – quasi – sapendo che tutto va bene, che la musica non potrebbe essere stata scritta in miglior modo.
E’ un gran bell’immergersi: grazie, papà!
Enrico Gatti