Testo scritto nel 2001 per il booklet della registrazione delle sonate op.I & op.II di Giuseppe Tartini (2 CD ARCANA A420)
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“There is a solitude of space A solitude of sea A solitude of death,
but these Society shall be Compared with that profounder site
That polar privacy A soul admitted to itself – Finite Infinity”
“C’è una solitudine dello spazio, una del mare, una della morte,
ma queste compagnia saranno in confronto a quel più profondo punto quell’isolamento polare di un’anima
ammessa alla presenza di se stessa – Infinito finito.”
(Emily Dickinson)
Potrebbe essere relativamente facile parlare di Bach, Vivaldi, oppure di Mozart, in una società abituata a percorrere autostrade. Ma qui vi chiedo di abbandonare quello che oggi è divenuto il centro e di imboccare insieme a me un sentiero. La musica di Tartini (considerato nel XVIII secolo uno fra i più grandi violinisti e didatti di violino del tempo) non è oggi molto frequentata, e si trova per così dire alla periferia della vita musicale contemporanea. Affrontarla è un po’ come salire una montagna ardua ed impervia, e non solo a causa delle numerose asperità di carattere tecnico che vi si ritrovano, ma anche e soprattutto per ciò che questa salita comporta in materia di preparazione storico-stilistica di base, poiché la figura di Tartini, se si guarda alla sua vita, a quelli che furono i suoi interessi ed alle sue molteplici attività, risulta alquanto complessa e difficile da afferrare nella sua interezza. Ma quando si arriva al termine della salita ciò che ci viene donato è la contemplazione della bellezza nella solitudine e nella pace, la possibilità di essere soli con sé stessi e di poter udire unicamente il suono dei propri pensieri, il rumore delle tante domande senza risposta. Quando ci ritroviamo a tu per tu con la bellezza crediamo di riconoscere nella cosa il modello, nel modello la proporzione matematica, nella proporzione matematica l’ordine che regge l’universo. E questa anamnesi si basa su di una conoscenza certa e sicurissima, benché continuamente esposta al fallimento, affidata com’è a un discernere sottile, personale, senza il beneficio della prova, conoscenza che non è se non interpretazione di segni tanto effimeri e oscuri quanto rivelatori della forma, dell’idea. Se ci chiediamo “da dove” (da dove l’immagine, l’idea, la forma?) siamo fuori strada. La potenza della forma, ossia la sua bellezza, la sua verità, che sono la stessa cosa, sta tutta nel carattere sorgivo dello scaturire come dal nulla, liberamente, senza alcuna necessità che la costringa e la produca, ma insieme nell’esigere un assenso senza riserve: sì, è lei, non può essere se non lei. Ma nel momento in cui la forma appare, l’anima ammutolisce lasciandosi catturare dalla potenza dell’origine, dell’infondato, del senza perché. Nel momento in cui è, nel momento in cui si manifesta ha luogo il riconoscimento, l’anamnesi, quel paradosso del riconoscere ciò che non si è mai conosciuto prima, grazie ad un tocco delicato e sapiente che sa sfiorare e ridestare la nostra libertà nell’immaginazione. Lo stile assolutamente personale di Giuseppe Tartini ci allontana dai percorsi più noti e consueti.
Spostare il centro del mondo: è ciò che fa ogni vero artista, cogliendo l’universalità nell’angolo più appartato e trasformando la periferia più remota in un teatro in cui si gioca il destino dell’uomo e balena il senso della storia. La consapevolezza che l’universalità – e dunque la centralità – possa essere ovunque, che anche un disprezzato sobborgo possa divenire “l’ombelico del mondo”. Gli artisti – o meglio gli uomini in generale – spostano nella realtà, nella mente e nel cuore, le frontiere; le allargano, le stringono, le cancellano, le ricostruiscono. Un centro diventa una periferia e viceversa, la patria – perduta o ritrovata in un esilio – è ora al di qua, ora al di là di un confine. Come sapeva Joseph Roth, nell’età contemporanea il sentimento autentico è quello di trovarsi alla periferia della vita della storia, anche se si abita nella Fifth Avenue, perché il centro si è fatto irreperibile e siamo tutti, in qualche modo, degli immigrati sradicati da casa... La mia speranza è di poter contribuire con questo lavoro ad una migliore comprensione dell’arte di colui che fu – a mio parere – uno dei più grandi violinisti-compositori della storia, creatore di un linguaggio squisitamente personale ed unico. Giuseppe Tartini non è, al contrario di altri compositori del XVIII secolo, suscettibile di una “commercializzazione” su vasta scala. Come una montagna è immobile nella propria cristallina solidità ed attende di essere investigato ed esplorato con quello stupore ammirato di coloro che amano avvicinarsi alla purezza della natura. Era e sarà sempre severo ed esigente con i propri esecutori, col proprio pubblico.
Giuseppe Tartini, ossia: che il diavolo vada al diavolo !
Qualche tempo fa un autorevole quotidiano europeo, presentando un mio concerto con sonate di Tartini, ha imperniato tutto l’articolo sulla seguente storia, che qui riassumerò brevemente: Tartini si sarebbe rifugiato nel sacro convento francescano di Assisi per fuggire l’ira di un cardinale romano di cui avrebbe segretamente sposato l’amante. In Assisi il compositore avrebbe avuto l’apparizione del diavolo che gli avrebbe offerto tutto il sapere musicale del mondo in cambio della sua anima, e a questo patto Tartini non sarebbe riuscito a negarsi.
Nella realtà l’unica verità certa contenuta in questo racconto è quella relativa al soggiorno di Tartini ad Assisi, ed è assai disarmante constatare come troppo spesso i media trattino i propri utenti alla stregua di poveri dementi incapaci di pensare e discernere, rifriggendo improbabili leggende o aneddoti frusti, evitando ogni possibile sforzo per andare oltre quelli che sono i cliché. Chissà quanti articoli del genere dovremo ancora subire... Per quanto concerne Giuseppe Tartini la situazione – se possibile – sta persino peggiorando: qualche tempo fa è apparsa una registrazione discografica, l’ennesima, del “Trillo del diavolo” – sempre e solo lui ! – presentato insieme ad altre sonate in una inedita esecuzione a violino solo senza basso continuo. Questa interpretazione sarebbe suffragata da una lettera dell’autore in cui si spiega che egli preferiva eseguire le sue sonate da solo senza accompagnamento. Ora, per amore della verità, è necessario dire che la lettera in questione esiste veramente, e fu inviata da Tartini a Francesco Algarotti, consigliere presso la corte di Berlino, il 24 febbraio del 1750, ma si riferisce esclusivamente ad un gruppo specifico di composizioni (si tratta di quelle che l’autore definisce nella lettera “Piccole Sonate”, identificabili con le composizioni attualmente conservate autografe nel manoscritto 1888 custodito presso l’Archivio Musicale della Cappella Antoniana di Padova), alcune delle quali inviate in copia con la lettera stessa e dunque ben conosciute ed appartenenti ad un periodo completamente diverso nella produzione tartiniana: musica “sentimentale” per eccellenza, con molti richiami al patrimonio musicale popolare e ricca di doppie corde in sostituzione delle armonie del basso; sappiamo che Tartini suonava gran parte di quelle composizioni a solo, senza basso, ed in numerosi casi nemmeno si prese la pena di scrivere la parte di accompagnamento. Nulla a che vedere invece con tutte le fonti conosciute del “Trillo del diavolo” (otto manoscritti sparsi in Europa ed America ed una fonte a stampa), tutte concordi nel riportare la parte di basso continuo, che è indispensabile per la corretta comprensione del testo e spesso contiene le cifre per la realizzazione delle armonie. E la cosa più incredibile è proprio che nessuna voce si sia levata per gridare allo scandalo. C’è da chiedersi : quale sarebbe stata la reazione se l’ oggetto di una tale mistificazione fosse stato un Bach o un Mozart ? Come affermava Manuel Vázquez Montalbán in “Cuestiones marxistas” “la funzione di subnormalità concessa all’intellettuale all’interno di una società capitalista o statalista” è “quella di riproduttore di ideologie dominanti o quella di provocatore controllato in grado di sorprendere la società in modo congiunturale finché non si vede sostituire da un pagliaccio più efficace o innovativo”. Così sul “mercato” spesso si agisce in tal modo : o si ribatte sui cliché di facile impatto popolare o si cerca lo “scoop”, la novità a tutti i costi, anche a costo di snaturare la verità; entrambi i sistemi ci dimostrano che oggidì in questo paese (voglio dire il mio paese: l’Europa) la competenza nella materia trattata e l’onestà intellettuale sono considerate doti di valore assai scarso, e comunque irrilevante. E ciò sia detto non certo per sollevare una sterile polemica, ma sinceramente ed unicamente allo scopo di difendere quelli che dovrebbero essere i “beni culturali” di tutti, poiché credo profondamente che maltrattare e stravolgere a proprio comodo e piacimento una struttura compositiva ed armonica equivalga a danneggiare un’architettura o a sfregiare un dipinto.
E allora.... che il diavolo vada al diavolo, una buona volta !
La vita
“Che un individuo voglia risvegliare in un altro ricordi che appartennero esclusivamente ad un terzo è un evidente paradosso”, scriveva Borges. Ma, caro lettore, mi auguro di non tediarti. Si dice che un essere non muoia del tutto finché resta vivo nel cuore di un altro, e così scrivo di Tartini perché, vivo nel mio cuore, e chissà, forse anche nel tuo, non sia più morto per nessuno.
Giuseppe Tartini nasce a Pirano d’Istria (attualmente in Slovenia, ma a quel tempo provincia della repubblica veneta) l’8 aprile del 1692 da padre fiorentino e madre istriana. Educato musicalmente e culturalmente in Istria, secondo il volere del padre avrebbe dovuto seguire la carriera ecclesiastica. Non precoce, inizia a studiare il violino all’età di dodici anni. Nel 1708 si trasferisce a Padova per seguire gli studi giuridici all’Università, ma nel frattempo si dedica intensivamente anche allo studio autodidattico del violino, come si ricava da una lettera indirizzata a Tartini da Gianrinaldo Carli il 21 agosto 1743:
“…sino da’ primi anni della vostra gioventù vi siete, a dispetto de’ vostri genitori, determinato alla musica strumentale, ed allontanatovi dalla casa paterna, vi siete talmente occupato, che ogni giorno per otto ore continue l’esercizio vostro non è stato che il violino…” [Gian Rinaldo Carli, lettera pubblicata a guisa di prefazione alle “Osservazioni sulla Musica Antica e Moderna”, in “Opere”, Tomo XIV, Milano 1786. La lettera è datata “Di Venezia, 21 agosto 1743”].
Alla morte del padre decide di rinunciare alla carriera ecclesiale ed il 29 luglio 1710 sposa Elisabetta Premazore, violinista, senza l’autorizzazione della famiglia e del Cardinale-Vescovo di Padova. Per sfuggire alle ire conseguenti al suo gesto, è costretto a partire improvvisamente e a rifugiarsi ad Assisi, trovando là sostegno da parte di un suo parente, il Padre Torre, che era guardiano del Convento di S. Francesco. Studia autodidatticamente il violino e si mantiene suonando nell’orchestra del teatro di Ancona. Qui, nel 1714, scopre il fenomeno del “terzo suono”. Studia anche la composizione, probabilmente col padre boemo Bohuslav Cernohorski, maestro di cappella nella Basilica di S. Francesco ad Assisi dal 1712 al 1715. Nel 1716 è presente ad un’accademia in casa Mocenigo a Venezia in onore del Principe Elettore di Sassonia (il futuro Federico Augusto III); lì ascolta suonare Francesco Maria Veracini, ed è talmente impressionato dall’abilità dell’arco di lui che decide di tornare in esilio volontario in centro Italia (Umbria e Marche) per perfezionare la sua tecnica. Di questo periodo non si hanno notizie, sappiamo solo che nella stagione di carnevale 1717-1718 Tartini era primo violino dell’orchestra del teatro di Fano. Abbiamo di nuovo notizie a partire dal 16 aprile 1721, quando fu creato per lui un posto presso la Basilica di S. Antonio a Padova; questo fatto si può spiegare solamente con la grande eccellenza e rinomanza da lui raggiunta, se si tiene conto che Tartini fu assunto “senza l’obbligo della prova” e, come si ricava dagli atti custoditi presso l’Archivio antico della Veneranda Arca del Santo, non solo gli fu assegnato uno stipendio adeguato alla sua funzione di primo violino e Capo di concerto della Cappella, ma gli furono riconosciute una libertà ed una autonomia eccezionali per poter svolgere la propria attività concertistica al di fuori della Basilica. Sicuramente la sua fama era legata all’abilità che aveva raggiunto sul violino, e non alla composizione, tuttavia con l’impegno a Padova cominciò la regolare attività compositiva per le sacre funzioni, soprattutto in occasione della festa della Sacra Lingua (15 febbraio) e la domenica tra l’ottava del 13 giugno, festa di S. Antonio. L’orchestra era una delle migliori in Europa, anche perché nello stesso periodo furono assunti altri valenti strumentisti: Antonio Vandini, violoncellista (che doveva diventare intimo amico di Tartini e suo primo biografo) e Matteo Bissoli, oboista; fra i cantanti ricordiamo invece il celebre castrato Gaetano Guadagni. Fu proprio Vandini che, trasferitosi a Praga nel 1722 per le celebrazioni in occasione dell’incoronazione di Carlo VI a Re di Boemia, fece colà invitare Tartini. Il violinista suonò in un’opera di J. J. Fux, si esibì in veste di solista e stupì per la sua abilità, venendo in seguito assunto con Vandini al servizio del Conte Kinsky, cancelliere delle corte boema. Il soggiorno a Praga durò tre anni: da lettere inviate alla famiglia si capisce che il clima non era ideale per l’istriano, ed è probabilmente per questa ragione che fece ritorno a Padova insieme a Vandini nel 1726. A Padova, in servizio presso la Basilica, Tartini rimase fino alla fine della sua vita, con le eccezioni dei soggiorni veneziani per le lezioni ai giovani delle famiglie patrizie o alle allieve dei conservatori, o per brevi permanenze in altre città italiane (Parma, Camerino, Roma, Verona) in occasione di feste particolari. Durante uno di questi soggiorni, nel 1741 a Bergamo Tartini fu colpito da una malattia sconosciuta, probabilmente una specie di paralisi al braccio, che gli impedì da allora di sfoggiare il suo virtuosismo di sempre, e limitò fortemente la sua attività concertistica esterna alla Basilica. A partire da questo momento Tartini si dedica soprattutto alla didattica: a questi anni risale la compilazione dello scritto sull’arco e sugli abbellimenti (Regole per arrivare a saper ben suonare il Violino…), poi pubblicato postumo a Parigi col titolo di Traité des Agréments. Nasce anche l’interesse per la riflessione teorica a partire dal fenomeno del terzo suono e fondata su leggi fisiche: secondo la teoria di Tartini i principi musicali sono retti da leggi naturali e riposano su formule matematiche precise. La scoperta del terzo suono (ottenuto attraverso l’emissione simultanea di due altri suoni, e la cui frequenza è pari alla differenza fra le frequenze dei due suoni generatori) fu fondamentale per lo sviluppo non solo della sua teoria, ma anche della sua poetica. Questa scoperta spinse Tartini a ricercare le leggi che governano l’armonia e ad applicarle al fenomeno musicale per eccellenza: la voce umana, e di conseguenza la sua imitazione sul violino. Nel 1754 il Trattato di musica secondo la vera scienza dell’armonia vede la luce in Padova. E’ del 1760 la lettera a Maddalena Lombardini, in cui vengono esposti alcuni principi essenziali del metodo di studio tartiniano, specie per ciò che riguarda l’arco. Nel 1767 seguono il De’ Principi dell’armonia musicale contenuti nel diatonico genere e la Risposta…alla critica del di lui Trattato di musica di Mons. Le Serre di Ginevra. A questo punto Tartini è sempre più preso dalle speculazioni teoriche ed impegnato a confutare i suoi critici; anche per l’avanzare dell’età riduce l’attività in Basilica e si fa spesso aiutare dall’allievo Giulio Meneghini che lo sostituisce. Nel 1765 la Basilica decide di esonerare Tartini dalle esecuzioni pubbliche, mantenendo però lo stipendio, e nomina Meneghini suo sostituto. Il nostro violinista continua comunque ad insegnare almeno fino al 1767, mentre si occupa del suo sistema armonico. Sono di questo ultimo periodo le sue piccole composizioni vocali, che naturalmente occupano un posto assolutamente non rilevante nella sua produzione. Tartini aveva sempre affermato di non voler comporre per il teatro, poiché sapeva bene che la gola d’una cantante non era un manico di violino, e così facendo intendeva evitare la sorte di un Vivaldi che – diceva – si era affermato nel campo concertistico ma si era fatto fischiare in quello vocale; però negli ultimi anni della propria vita scrive delle brevi e semplici pagine vocali sacre che sono espressione di sincera devozione spirituale. Nel 1768 soffre di un lieve infarto, di cui si possono vedere gli effetti nell’autografo di un movimento di sonata conservato a Parigi. Muore nel 1770 per l’effetto di una cancrena sviluppatasi nel piede sinistro.
L’attività didattica
Dopo la scuola romana di Arcangelo Corelli e quella piemontese fondata da uno dei migliori allievi di Corelli, Giovanni Battista Somis (e che ebbe eminenti rappresentanti in Jean-Marie Leclair, Felice Giardini, Gaetano Pugnani e Giovan Battista Viotti, a sua volta da considerarsi il fondatore della moderna scuola franco-belga) la scuola padovana occupa cronologicamente il terzo posto fra le grandi scuole violinistiche, ma è indipendente dalle precedenti e si sviluppa grazie alla grande personalità di Tartini. La sua fama si diffonde rapidamente in tutta Europa ed oltre, gli allievi (spesso violinisti inviati a perfezionarsi dai principi presso cui erano in servizio) arrivano da Francia, Olanda, Germania, Svezia, Boemia, oltre che da tutta l’Italia; l’opera II di Tartini è dedicata a Guglielmo Fegeri, che dall’isola di Giava si era mosso verso l’Europa alla scopo di istruirsi nelle belle arti. Per questa internazionalità della sua scuola Tartini fu chiamato “il Maestro delle Nazioni”. I suoi allievi, svolgendo una attività concertistica di ampio respiro, propagandarono la fama del maestro per lungo tempo, e fra essi ricordiamo Nardini, Pagin, Bini, Naumann, Ferrari, M. Lombardini Sirmen. Scrive Tartini al conte Riccati il 27 agosto 1761:
“Per mesi e mesi ho dovuto dar lezione mattina e dopo pranzo…s’immagini Ella se dopo quasi sette ore continue della mattina e tre del dopo pranzo rimanga voglia e forza per qualunque altra cosa ad un uomo di settanta anni”.
Da un’altra lettera scritta a Padre Martini il 14 novembre 1737 ricaviamo interessanti informazioni sulla sua attività didattica:
“Io avrò quest’anno dà insegnare à nove scolari; cosa che mi confonde affatto, perché quando ne hò avuto quattro o cinque, sono stato il più imbrogliato uomo del mondo. Vengono, ò per dir meglio, sono venuti la maggior parte, insalutato ospite, e ben da lontano, cosicché non si può rimandarli à casa, e sono servitori di Principi”.
E, sempre nella corrispondenza con Padre Martini (lettera del 18 settembre 1739):
“Ciò, ch’è il meno del mio onorario, sono due Zechini al mese, e questo è per il solo Violino, perché chi vuol imparare anco il contrapunto, mi paga trè Zechini. Sono altri scolari che mi pagano più mà ciò che io ho detto, è il mio solito, onde due Zechini solo saranno per il Violino. Se il giovane è qualche poco avanzato, dentro un’anno a Dio piacendo lo Studio sarà compito, mentre osservo che per quanto deboli vengano qui li Scolari, in due anni sono Sbrigati”.
I tempi di permanenza degli allievi a Padova non ci debbono sembrare esageratamente brevi per varii motivi: innanzitutto si trattava per lo più di violinisti già impiegati (quindi professionisti) che volevano perfezionarsi; in secondo luogo è certo che l’insegnamento si svolgesse in modo assai differente da oggi: l’insegnante seguiva regolarmente, quasi giorno per giorno, lo studio ed i progressi degli allievi con lezioni lunghe ed esaurienti, in modo tale che un periodo di due anni vissuto costantemente a contatto con Tartini costituiva un formidabile concentrato di esperienza e di sapere. Della coscienziosità del Maestro delle Nazioni abbiamo una dimostrazione nella celebre lettera a Maddalena Lombardini Sirmen, scritta nel 1760, nella quale vengono esposti alcuni principi fondamentali dello studio del violino in cui è evidente l’ispirazione della scuola corelliana.
Tartini insegnò ai suoi allievi anche l’armonia, il contrappunto e la composizione, come testimoniano alcuni manoscritti appartenuti a studenti tedeschi: un frammento di J.G. Naumann (circa 1762) contiene contrappunto ed esercizi di modulazione corretti da Tartini, regole per i tipi di cadenze, trattamento delle dissonanze, rivolti di accordi e la Regola del terzo suono, su cui Tartini non solo basava la sua teoria, ma anche lo studio della giusta intonazione. Questo manoscritto, insomma, ricalca quello autografo del Maestro, oggi alla British Library; esiste anche un altro manoscritto intitolato Libro del Contrapunto del Signore Gioseppe Tartini Appartenuto à Antonio Lehneis Anno 1774, custodito presso la Staats Bibliothek di Berlino e dal contenuto assai simile a quello già citato, con un capitolo dal titolo Spiegazione dell’armonia per Natura. Tartini non pensava alla pubblicazione per alcuna delle sue opere didattiche, e dobbiamo probabilmente alla curiosità ed all’interesse dell’abate A.B. Sberti se la lettera a Maddalena Lombardini è giunta fino a noi; anche le Regole… (altrimenti chiamate Lezioni pratiche) non erano destinate alle stampe, ma circolavano manoscritte nell’ambito della scuola, per cui è da ritenere che il loro contenuto sia solo una sintesi ristretta dei principi tartiniani. In questo senso certo esse non possono venire paragonate con la Violinschule di Leopold Mozart, appositamente concepita per la pubblicazione, e d’altra parte ricordiamo che il padre di Wolfgang, nel suo trattato (che vide la luce nel 1756) si ispirò a, ed in alcuni casi addirittura copiò letteralmente, alcune parti delle Regole… senza mai citare il loro vero autore.
Possiamo quindi chiudere il discorso sulla scuola tartiniana affermando che essa fu la più importante del XVIII secolo per la lunga durata dell’attività didattica del Maestro, per il notevole livello artistico raggiunto dagli allievi, provenienti da ogni parte del mondo, e per l’enorme influenza esercitata sulle generazioni del futuro.
Le opere
Le molte edizioni-pirata e la scarsezza di autografi superstiti (specialmente fra le sonate) rendono estremamente duro il lavoro di datazione delle opere di Tartini. Classificazioni sono state tentate da Paul Brainard per le sonate e da Minos Dounias per i concerti, ma si basano quasi esclusivamente su criteri stilistici. Questa musica, – come d’altronde quella di buona parte dei compositori italiani del sei-settecento – rimane ancora in massima parte inedita in tempi moderni, e da qui discende il fatto che essa non sia abbastanza eseguita, registrata e quindi diffusa e conosciuta. Di Tartini, allo stato attuale delle conoscenze, ci sono pervenuti:
- circa 150 concerti per violino ed orchestra
- circa 200 sonate per violino e basso continuo (alcune non sono di sicura attribuzione)
- L’Arte dell’Arco (variazioni sulla gavotta della sonata op. V n° 10 di Corelli)
- 2 concerti per violoncello ed orchestra (lo strumento solista è chiamato “viola” [da braccio], come era costume nell’ambiente padovano dell’epoca: si vedano al riguardo i registri di pagamento di Antonio Vandini e dei suoi colleghi violoncellisti)
- 2 concerti per flauto ed orchestra (di non sicura paternità)
- 4 sonate a 4 per archi
- circa 40 sonate a tre per due violini e basso
- 20 Canzoncine sacre a una, due o tre voci
- Stabat mater a tre voci
- Pange lingua a tre voci
- 2 Tantum ergo a tre voci
- 3 Miserere a tre, quattro e cinque voci
- Salve regina a quattro voci (“ultima composizione del…Tartini”)
Le Sonate op. I
La composizione dell’op. I Le Cène avviene all’inizio degli anni ’30 del ‘700, quando è ancora relativamente recente la scomparsa di Arcangelo Corelli, figura fondamentale del mondo violinistico e pietra angolare della musica strumentale. Tutti i violinisti-compositori – pur impegnati ognuno in una propria personale ricerca stilistica – rendono omaggio alla sua opera seguendone le orme sia per ciò che concerne l’organizzazione formale che per il linguaggio musicale: così ad esempio Vivaldi con l’op. I (1705) e l’op. II (1708), Bonporti con l’op. X (1712), Geminiani con l’op. I (1716), e Veracini con l’op. I (1721). Seppur manifestando fin dall’inizio i segni inequivocabili di una personalità marcata e sicura (a 40 anni Tartini era solista affermato e di rinomanza internazionale, oltre che già consumato compositore e didatta) il violinista piranese si iscrive inevitabilmente in tale linea, pagando il suo tributo al maestro di Fusignano. L’op. I Le Cène si configura in tal modo come una raccolta idealmente divisa in due parti: la prima di carattere più “osservato” e la seconda di respiro più libero e comunque ispirata alla musica da camera, secondo la tradizione inaugurata dall’op. V di Corelli. Nelle sonate della prima parte spiccano per la sontuosa maestosità i movimenti lenti introduttivi, che sottintendono una copiosa diminuzione secondo i canoni della migliore arte italiana del tempo. Seguono dei fugati di pregevole fattura in cui è il violino a far la parte del leone, ma d’altro canto lo stile sta cambiando: ancora dieci anni ed il contrappunto sparirà quasi del tutto da questo genere di musica lasciando campo ad una nuova ricerca estetico-espressiva. Questi secondi movimenti fugati costituiscono il vero e proprio centro della composizione: ricordiamo en passant che il catalogo tematico delle sonate tartiniane compilato da Giulio Meneghini, attualmente conservato presso la Bibliothèque Nationale di Parigi, è stato redatto prendendo in considerazione i temi dei secondi movimenti, e non dei primi di ogni sonata. Seppure già a partire dall’op. II di Antonio Vivaldi (1708) la forma della sonata per violino si fosse avviata verso la drastica riduzione – se non perdita – del movimento lento interno, un vago ricordo di esso sussiste in alcune di queste sonate tartiniane negli adagi che concludono i fugati: non si tratta qui di semplici cadenze rallentate, ma di brevi andamenti a cui viene affidato l’importante cambio di atmosfera che fungerà da transizione verso i movimenti finali. E’ proprio nei movimenti di chiusura che lo stile più moderno di Tartini fa capolino con temi assai ritmati o con movenze di danza. Nella seconda parte della raccolta trovano posto composizioni notevoli fra cui spicca la sonata n° 10, meglio conosciuta come “Didone abbandonata”; poiché però tale titolo non risulta in nessuna fonte né da alcuna documentazione d’epoca, sembrerebbe essere frutto di una tradizione ottocentesca, anche se rimane suggestivo l’accostamento dei tre movimenti con i contrastanti stati d’animo di Didone, in seguito alla notizia della fuga di Enea: costernazione e dolore incredulo, rabbia e desiderio di vendetta, rassegnazione e morte. L’opera prima si chiude con una tredicesima sonata intitolata “Pastorale” in cui l’intento naturalistico e popolareggiante è scoperto ed evidente. Il violino viene utilizzato in scordatura (la-mi-la-mi) con effetti ad imitazione delle pive natalizie.
Nonostante lo scarto generazionale ed evidentemente stilistico, Giuseppe Tartini si impone con l’op. I quale vero erede “morale” di Corelli e quindi secondo caposaldo del violinismo e della didattica italiana.
Per la presente registrazione sono state utilizzate le seguenti fonti:
1. Giuseppe Tartini: Sonate a violino e violoncello o cimbalo Dedicate a Sua Eccelenza Il Signor Girolamo Ascanio Giustiniani da Giuseppe Tartini, Opera Prima, Amsterdam, Spesa di Michele Carlo Le Cene (1734)
2. Mss. 1905/1 (Padova, Biblioteca della Veneranda Arca del Santo [sonata n° 12, autografo])
3. Mss. 326, XVIII secolo, con frontespizio a stampa (Assisi, Biblioteca del Sacro Convento di S. Francesco)
4. Giulio Meneghini: Le prime sei sonate della prima opera del Tartini Giuseppe tradotte in Concertoni a quattro parti reali per Accademia , mss. sec. XVIII (Venezia, Fondazione Levi).
5. Charles Henri de Blainville: Concerti Grossi Con due Violini, Viola e Violoncello di Concertino Obligati, e due altri Violini e Basso di Concerto Grosso da Carlo Blainville, Composti della Prima e Seconda parte dell’opera Prima di Giuseppe Tartini, Gravé Par M.me Leclair (Paris, ca.1740).
Il testo è stato stabilito naturalmente sulla base della prima edizione di M. Le Cène (autorizzata dal compositore) e sull’autografo esistente della dodicesima sonata, ma le altre fonti sono state consultate con profitto allo scopo di chiarire alcune ambiguità di stampa, in parte concernenti problemi di legature ed archeggiatura. Ad esempio illuminante è la collazione fra l’edizione del 1734 ed il manoscritto della trascrizione di Meneghini (allievo prediletto e successore di Tartini presso la Basilica di S. Antonio in Padova) nella fuga della IV sonata con riguardo alla questione delle dissonanze preparate ed alla loro esecuzione violinistica nei fugati. Il motto “Lascia ch’io dica addio” si trova nell’autografo della sonata n° 12, al principio dell’adagio introduttivo, ma non viene ripreso nell’edizione a stampa di Le Cène. E’ scritto con la caratteristica scrittura cifrata di Tartini, che custodiva in tal modo i segreti della propria ispirazione (l’enigma di tale alfabeto cifrato è stato sciolto nel 1935 dal musicologo greco Minos Dounias, che ha anche scoperto come una gran parte di tali testi fosse tratta dai drammi del Metastasio). Lo stesso motto venne utilizzato dall’autore anche nelle sonate B. C5, B. D3 e B. E2, oltre che nel concerto D. 125. A tale proposito è interessante ricordare la testimonianza del conte Algarotti sul modo di lavorare di Tartini:
“Grandissimo è il motto del Fontenelle: “ Sonate, que me veux tu? ” Ma così non avrebbe già egli detto di quelle dello incomparabile Tartini, dove trovasi varietà congiunta con la unità più perfetta. Prima di mettersi a scrivere è solito leggere una qualche composizione del Petrarca, con cui per la finezza del sentimento simpatizza di molto; e ciò per avere dinanzi una data cosa a dipingere con le varie modificazioni che l’accompagnano, e non perder mai d’occhio il motivo o il soggetto”. [Francesco Algarotti, “Saggio sopra l’opera in musica”, Livorno 1755].
Per ciò che concerne i movimenti lenti dell’op. I non sono conosciute versioni ornate ascrivibili all’autore. Gli ornamenti (o “modi naturali ed artifiziali”) da me introdotti sono ispirati alle diminuzioni – di sicura ascendenza tartiniana – che si conservano nei manoscritti custoditi presso la Music Library di Berkeley, University of California, con le segnature Mss. It. 899-1014. Tali manoscritti sono stati da noi consultati e studiati, così come la dissertazione di Minnie Agnes Elmer Tartini’s Improvised Ornamentation, as Illustrated by Manuscripts from the Berkeley Collection of Eighteenth Century Italian Instrumental Music, University of California 1962.
Il diapason utilizzato è quello alto (A = 440), conforme all’uso veneto ed in particolare padovano dell’epoca.
Le Sonate op. II
Charles Burney, giunto a Padova nel 1770 a pochi mesi dalla morte di Giuseppe Tartini, così si esprimeva nei confronti del violinista istriano :
“Il suo valore di compositore e di virtuoso è troppo noto perché io debba qui tesserne le lodi: dirò soltanto che come compositore fu uno dei pochi geni originali di questo secolo e che soltanto in sé stesso trovò la fonte della propria ispirazione. La sua melodia era ricca di fuoco e di fantasia, e la sua armonia, per quanto sapiente, era semplice e pura”. [Charles Burney, “The present state of Music in France and Italy”, edizione italiana E.D.T., Torino 1979].
Altrove lo stesso Burney afferma che “Tartini cambiò il suo stile nel 1744, da estremamente difficile a grazioso ed espressivo”.
Sebbene le sonate dell’opera II pubblicate da Cleton a Roma nel 1745 non possano certo definirsi meno complicate ed esigenti dal punto di vista tecnico rispetto a quelle dell’opera I pubblicata da Le Cène ad Amsterdam nel 1734, è assolutamente innegabile che ci si trovi di fronte ad un profondo cambiamento estetico - stilistico. Di questa nuova tendenza tartiniana è chiara testimonianza la sopracitata lettera di Gian Rinaldo Carli che narra degli incontri che si tenevano in quegli anni nei circoli culturali di Padova, di cui il nostro compositore era uno degli animatori :
“La tesi ch’io sosteneva, oltre l’articolo del contrappunto, in favor degli antichi, cioè, che la musica deve essere sentimentale e non arabesca, insignificante, e solamente artifiziosa, indusse il Tartini a pensare ad un nuovo genere di armonia; onde ritornato io a Padova venne da me, e mi fe’ vedere, come l’arte potesse arrivare a dipingere ed eccitare le passioni umane, e qual nuovo Timoteo eccitò a sua voglia dentro di me il sentimento vario ora d’allegrezza, ora di tristezza, ora di furore. Queste furono quelle sonate che si meritarono dappoi l’applauso di tutta l’Europa e delle quali parlando M. D’Alembert nel suo Trattato della Musica disse “che erano piuttosto un sentimento, e un linguaggio, che un suono, ed un’armonia”. [Gian Rinaldo Carli, lettera cit.]
Senza dubbio le composizioni dell’op. II qui registrate fanno parte di quel gruppo di sonate a cui si fa riferimento nella lettera. Il carattere patetico, drammatico e lirico di alcuni movimenti lenti raggiunge spesso una tensione espressiva che si potrebbe forse definire pre-romantica. Nell’elaborazione del suo nuovo linguaggio Tartini dà ampio spazio agli echi della sua terra, alla musica d’ispirazione folklorica proveniente dai paesi slavi dell’est, alle canzoni ed ai motivi “Schiavoni” ascoltati (o riascoltati...) nelle calli e nei canali veneziani; le origini di Tartini si identificano col patrimonio genetico della sua nuova musica e lontano dalla patria la sua maturazione si compie fino a riconoscere fino in fondo la propria cultura ed il proprio destino nel panorama musicale del suo tempo.
Vale forse qui la pena di fare chiarezza e ripercorrere brevemente le curiose ed infauste vicende editoriali che riguardarono le sonate tartiniane. Nel 1732 un editore di origine tedesca ma operante ad Amsterdam, Gerhard Fredrik Witvogel, aveva pubblicato col titolo di opera I, ma senza l’autorizzazione del compositore, una scelta di sei sonate di Giuseppe Tartini. Quest’ultimo rispose dando alle stampe, sempre ad Amsterdam, ma per i tipi di Michel Le Cène nel 1734, una raccolta di 13 sonate denominata anch’essa – ma questa volta legalmente – opera I. Tuttavia nove anni più tardi doveva accadere che gli eredi dello stesso editore olandese Le Cène pubblicassero una nuova collezione di sei sonate tartiniane col titolo di opera II; le sonate erano sì di Tartini, ma l’edizione non era stata né preparata né autorizzata dall’autore. Il violinista – le cui composizioni erano evidentemente molto richieste sul mercato – preparò allora una raccolta di 12 sonate completamente nuove e la fece incidere a Roma come op. II da Antonio Cleton nel 1745, dedicandola – fatto assai singolare – al proprio allievo Guglielmo Fegeri proveniente dall’isola di Giava. A lui l’autore rivolse – fra le altre – le seguenti parole:
“con inusitato esempio vi siete partito così giovane dall’Indie Orientali, e lasciata Giava vostra carissima Patria, non d’altro mosso che dal desiderio nobilissimo di arricchirvi la mente delle Scienze e delle Arti megliori: e giunto nella nostra Europa non avete in questo mezzo lasciato in dietro nessuna diligenza in cercando gl’Uomini più dotti, che rispettivamente avete trovato in ogni maniera di Scienze, e non avete perdonato mai ne a fatiche, ne ad altro, perché vi riesca, come a meraviglia vi è già riuscito, un sì lodevole disegno. Ora a dire il vero, molti di molte Nazioni d’Europa, per la opinione buona, che di me portano, sono venuti in Padova, per essere instruiti nella detta bell’Arte: ma troppo singolar cosa mi pare, che ci siate venuto Voi; cioè, che tra tutti gl’Uomini, che pur sono celebrati nella mia stessa Professione, vi siate voluto servire di me, e dell’Opera mia.”
Per le sonate dell’opera II Cleton sono state utilizzate le seguenti fonti:
6. Giuseppe Tartini: Sonate a violino e basso dedicate al S.r Guglielmo Fegeri di Giuseppe Tartini opera seconda. Antonius Cleton Scul: Romae Superiorum permissu (1745)
7. Mss. D 11218 (Paris, Bibliothèque Nationale, Fonds du Conservatoire [sonate n° 1, n° 4, n° 5])
8. Mss. 21636 (Berlin, Staatsbibliothek Preussischer Kulturbesitz [sonata n° 11])
9. Inserzione manoscritta nell’esemplare a stampa dell’op. I Le Cène già di proprietà di Pierre Baillot (Padova, Biblioteca del Conservatorio di Musica “Cesare Pollini” [III movimento della sonata n° 1])
Il testo è stato stabilito naturalmente sulla base della prima edizione di Roma del 1745 (autorizzata dal compositore), non esistendo alcun autografo, ma le altre fonti sono state consultate con profitto allo scopo di chiarire alcune ambiguità di stampa, in massima parte concernenti problemi di legature, archeggiatura ed ornamenti. Per ciò che concerne i movimenti lenti dell’opera II sono conosciute alcune versioni ornate ascrivibili all’autore, ma non per le sonate qui prese in considerazione, le cui caratteristiche non sembrano prestarsi alla diminuzione quanto altri tipi di sonate (vedere ad esempio le sonate dell’ op. I Le Cène); in questa fase della sua vita Tartini infatti inseriva spesso numerosi ornamenti direttamente nella linea melodica, inoltre c’è da constatare che qualora si sia in presenza di doppie corde nei movimenti lenti, nelle esistenti versioni ornate di Tartini i passi a doppie corde non vengono mai modificati.
Il diapason utilizzato è quello alto (A = 440), conforme all’uso veneto ed in particolare padovano dell’epoca.
Bibliografia essenziale :
- Paul Brainard: Le sonate per violino di Giuseppe Tartini, Catalogo Tematico, Studi e ricerche dell’Accademia Tartiniana di Padova. Carisch, Milano 1975 [Traduzione parziale della dissertazione di Laurea Die Violinsonaten Giuseppe Tartinis, Göttingen 1959].
- Minos Dounias: Die Violinkonzerte Giuseppe Tartinis, Wolfenbüttel-Berlin 1935.
- Pierluigi Petrobelli: Giuseppe Tartini: le fonti biografiche, Universal Edition, 1968.
Tartini, le sue idee e il suo tempo, Libreria Musicale Italiana Editrice, 1992.
- P. Leonardo Frasson: Giuseppe Tartini primo violino e capo concerto nella Basilica del Santo: l’uomo e l’artista, Basilica del Santo, Padova 1974.
- A.A.V.V. : Tartini, il tempo e le opere, [Atti del convegno internazionale di studi tartiniani tenutosi a Padova nel 1992] a cura di Andrea Bombi e Maria Nevilla Massaro, Società editrice il Mulino, 1994.
- Pierpaolo Polzonetti: Tartini e la musica secondo natura (Premio Internazionale Latina di Studi Musicali 1998), Libreria Musicale Italiana Editrice, 2001.
- Per quanto concerne la sonata in sol minore Brainard g5 , comunemente detta “Il Trillo del diavolo”, si veda l’edizione urtext (la prima edizione fatta sulle fonti manoscritte dell’epoca) a cura di Agnese Pavanello pubblicata da Baerenreiter nel 1997 col numero di catalogo Hortus Musicus 278.
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“Scusate la lunghezza di questa lettera – scriveva un francese del settecento – poiché non ho avuto il tempo di farla più corta”.
E solo ora che sono arrivato alla fine di questa introduzione mi è tornata alla mente una frase folgorante di Fernando Pessoa : ”Del resto, l’unica prefazione di un’opera è il cervello di chi la legge” [“Una sola moltitudine”].
Così, caro lettore-ascoltatore, è evidente che l’unica vera prefazione a questa registrazione può essere solo la tua sensibilità.
Vivi felice
Enrico Gatti